Venezia80

Un viaggio nel cinema senza fermarsi sul tappeto rosso

‘Poor Things’ è il ‘Frankenstein’ di Yorgos Lanthimos ed è un capolavoro. Il Bernstein di Bradley Cooper è da applausi. Delude David Fincher

Emma Stone e Mark Ruffalo in ‘Poor Things’
(Keystone)
3 settembre 2023
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Un grido si è levato subito, nella tranquilla laguna intorno a quell’isola unica che è il Lido, e non è stato solo quello di un gallo, che ogni mattina risveglia gli ospiti, soprattutto quelli che hanno animato la notte, ma quello di chi in ogni maniera e non solo con gli introvabili biglietti, è riuscito a vedere ‘Poor Things’ di Yorgos Lanthimos, facilmente definibile come un freakout vittoriano steampunk-retrofuturista, macabro horror nero-comico, debitore del ‘Frankenstein’ di Mary Shelley, di ‘The Elephant Man’ di Lynch e degli ‘Occhi senza volto’ di Franju. E se vogliamo, la splendida magnifica attrice Emma Stone che qui offre una performance straordinaria ed esilarante nei panni della primitiva e sessualmente innocente Bella Baxter, non è, nei movimenti e nell’andatura, che un bell’omaggio allo Spaventapasseri di Ray Bolger nel ‘Mago di Oz’ di Victor Fleming, e la mente ci porta a pensare alla purezza della Bess di Emily Watson in ‘Breaking the Waves’ di Lars von Trier.


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Yorgos Lanthimos

Al di là dei debiti cinematografici, resta la superba originalità di Yorgos Lanthimos, che ci mostra un mondo straordinario, artificiale e contorto, con una ricchezza linguistica che va dalla monocromia, all’uso sapiente di una lente fish-eye, a un riferimento preciso ad antiche lastre a colori incise. Il film si apre con una giovane donna (Emma Stone) che, nell’Inghilterra vittoriana, si toglie la vita gettandosi dal Tower Bridge di Londra. Il corpo morto ma ancora carico di elettricità viene subito rianimato dal dottor Godwin Baxter (un grandioso Willem Dafoe), scienziato brillante e poco ortodosso; nel suo cortile trionfano strani animali composti da parti di corpo diverse, cani galline e simili; questi scopre che la donna è incinta e per salvarla, vista la morte cerebrale, impianta il cervello del nascituro nella testa della madre, che si ritrova allo stato infantile con un corpo maturo. Lo scienziato, che le pone nome Bella Baxter come fosse una figlia, segue il suo cammino di crescita intellettuale, e tra le prime parole che la donna impara ci sono le prime lettere del suo cognome: God ‘Dio’.

Oltre che dal dottor Baxter, Bella viene istruita e accudita dalla sua governante Mrs Prim (una brava Vicky Pepperdine) e dal fresco assistente di ricerca di Baxter, Max McCandles (un attento Ramy Youssef), che s'innamora profondamente di Bella al punto di chiederla come fidanzata. Ma lei, che ha scoperto il piacere sessuale con la masturbazione, ha altre idee di libertà e se ne fugge con un avventuriero, Duncan Wedderburn (un Mark Ruffalo da applausi), un avvocato scaltro e dissoluto; arrivati a Lisbona, lui la inizia ai piaceri sessuali più sfrenati, dovendo però fare i conti con la naïveté della donna bambina, incapace di stare in società. Nel loro girovagare, i due arrivano al porto di Alessandria in Egitto, dove Bella scopre il dolore vedendo i bambini morire di fame; decide, senza pensare ad altro, di prendere tutti i soldi di Duncan e darli nelle mani di due marinai furfanti che le promettono di portarli ai poveri denutriti. In seguito, si ritrovano poveri a Parigi: lei per mangiare impara a prostituirsi, per la disperazione di lui che le ruba i pochi soldi per tornare a Londra. Qui ritorna anche Bella, perché Baxter sta morendo: chiede a Max, il fidanzato promesso se vuole sposarla, lui accetta, ma davanti all’altare tutto è fermato dall’arrivo di un violento nobile che la reclama come la sua legittima sposa...

La commedia è stupenda e Bella, libera dai pregiudizi del suo tempo, cresce salda nel suo proposito di battersi per l’uguaglianza e l’emancipazione. È convincente come figura romantica e autodidatta che, a differenza di altri mostri, alla fine aspira a studiare medicina. Un capolavoro: è perfetto ogni fotogramma, ogni immagine, ogni nota, ogni battuta, ogni performance, e gli applausi non bastano.


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‘Maestro’: Carey Mulligan è Felicia Montealegre, Bradley Cooper è Leonard Bernstein

‘Lenny’

Merita applausi, sempre in Concorso, ‘Maestro’, che Bradley Cooper nella doppia veste di regista e interprete principale dedica alla figura del leggendario direttore d'orchestra e compositore americano Leonard Bernstein e della moglie, l’attrice e attivista sociale Felicia Montealegre Cohn Bernstein (magistralmente interpretata da Carey Mulligan). Il film si apre con un preludio, girato a colori, in cui l'ormai anziano Leonard ‘Lenny’ Bernstein suona un pezzo di pianoforte nella sua casa di campagna nel Connecticut, per poi sottoporsi a un'intervista televisiva in cui confessa quanto gli manchi "lei", Felicia, la sua defunta moglie e anima gemella, la madre di quei figli che, adulti, mal sopportavano l’idea di un padre omosessuale, capace di continue cacce ad amanti anche occasionali. Ed è questa omosessualità che percorre drammaticamente tutto il film, scontrandosi in una lotta mortale con la dirittura morale e l’amore senza condizione della moglie.

Tutt’uno con la sigaretta tra le labbra, come un personaggio di Leone, vediamo Lenny nel momento fondamentale della sua vita, quel 14 novembre 1943 in cui, a 25 anni, direttore assistente della Filarmonica di New York, viene chiamato a salire sul palco, senza prove, per sostituire il direttore ospite, Bruno Walter, che si è ammalato. Il regista fa una scelta importante nel raccontare di Lenny: non vediamo quasi nulla di ‘West Side Story", il suo lavoro più conosciuto, e niente degli anni 50 e 60, forse i suoi più prolifici, ma vediamo un backstage di ‘Fancy Free’, il balletto del 1944 creato da Bernstein e Jerome Robbins (che alla fine è diventato il musical ‘On the Town’); mentre Lenny compone nel bagno con la porta aperta, lo vediamo e lo ascoltiamo dirigere commossi, all'interno di una cattedrale, la Seconda Sinfonia di Mahler, scena magnifica in cui Cooper ci mostra come Bernstein diventasse musica.

Per il resto, il film prende le mosse dal fascino interiore di Bernstein, dalla sua vita con Felicia, ed è questo duo con orchestra che riempie il film fino alla tragica morte di lei dove il regista compone la sua scena più emozionante e vera. Non è un biopic, è un film sull’amore, sul peso della libertà d’amare e sul senso dell’amore coniugale, un film dove la musica accompagna la vita, senza mai prevaricarla, nonostante Lenny.


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David Fincher

Inoltre, in Concorso

In Concorso anche ‘The Killer’ di David Fincher con la sceneggiatura di Andrew Kevin Walker, tratto dall’omonima graphic novel di Alexis ‘Matz’ Nolent illustrata da Luc Jacamon. Il film è noiosamente troppo parlato, incapace di sollevarsi dall’ovvio e interpretato come un palo da uno spento Michael Fassbender e da un’annoiata Tilda Swinton. Lo si vedrà su Netflix. Ancora in Concorso, mancano il bersaglio due film italiani: ‘Finalmente l’alba’ di Saverio Costanzo, anche qui con Willem Dafoe, è pellicola che partendo da un famoso caso di cronaca nera – quello dell’omicidio della giovane Wilma Montesi, avvenuto nell’aprile del 1953 – racconta senza entusiasmo di una giovane nella Cinecittà degli anni 50. Ma il film non riesce a volare, né a interessare. Come pure ‘Adagio’ di Stefano Sollima, ennesimo film sulle bacate periferie romane, che abbisogna dei sottotitoli inglesi per comprendere i vuoti dialoghi, e una non recitazione da parte di tutti. Sembra che recitare sia per tutte e tutti, come la critica cinematografica ognuno scrive a suo modo la sua. C’erano una volta le serie scuole di teatro e cinema, c’era una volta la cultura cinematografica.

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