A colloquio con ‘Blue’ Lou Marini, membro storico della band di culto di un film di culto, il primo agosto a Locarno a fare (doppia) festa
“Chi l’avrebbe mai detto, dopo aver tirato mezzanotte fra un locale e l’altro, di finire in un pianobar della tua città e incontrare dentro, per caso, delle autentiche leggende viventi del blues! Allora anche i fumi diventano più sopportabili e il whisky che stai sorseggiando acquista un altro sapore”. Così titolava la stampa il 9 maggio del 1990. Il locale era la Bussola, sul lungolago di Muralto, e quel concerto ancora, da queste parti, produce aneddotica. Con i Blues Brothers, quella sera, suonava lo statunitense e un po’ ticinese Gil Goldstein, cinque volte Grammy.
«Si deve a quell’invito se noi conosciamo un po’ Locarno. Non ce la siamo dimenticata», ci dice il sassofonista/polistrumentista Lou Marini, noto anche come ‘Blue Lou’. Oggi, insieme a quello del chitarrista Steve Cropper, il suo è il nome più storico di una formazione nata nel 1978 per essere parte di uno sketch comico di Dan Aykroyd e John Belushi (1949-1982), durante il Saturday Night Live, e divenuta in breve tempo band di culto di un film di culto.
Il quarantennale dei Blues Brothers è già passato e poco importa, ogni loro concerto è una festa, ancor più in Svizzera, nel giorno della festa della Confederazione. Il primo agosto, dalle 21 a Locarno, alla Rotonda by la Mobiliare e in collaborazione con il Vallemaggia Magic Blues (chi altri), sarà come rivivere le gesta dei fratelli Jake ed Elwood, che dovevano dei soldi al fisco e di meglio non avevano trovato che provare a rimettere in piedi ‘la band’. Aykroyd partorì quell’idea geniale insieme al collega Ron Gwynne dentro l’Holland Tunnel Blues Bar di New York, locale in cui staff e ospiti del Saturday Night Live erano soliti ritrovarsi, e dove Belushi aveva riposto strumenti, a disposizione di tutti.
Due anni più tardi, nel 1980, quella storia sarebbe diventata ‘The Blues Brothers’, film passato dallo status di ‘imbecille stramberia’ (Washington Post) e ‘saga presuntuosa’ (Los Angeles Times) a classico imprescindibile della commedia americana e della storia della musica intelligente.
Wikipedia/Thomas Andersen
‘Blue Lou’ nel 2007
Mr. Marini, il blues non è nato nel 1980, ma per alcuni sì: perché veneriamo ancora ‘The Blues Brothers’? Perché non ci siamo stancati di ascoltarne la colonna sonora, conosciamo a memoria le battute del film e sentiamo di avere visto anche noi la luce?
Ho una teoria, condivisa dalla gran parte dei miei colleghi della band. Io e il nostro batterista, Lee Finkelstein, che suona con noi da ormai più di vent’anni, ci guardiamo prima dell’inizio di ogni concerto e ci diciamo, senza proferire parola, quanto fortunati siamo a fare musica insieme, in posti meravigliosi. Finiamo il concerto e tutti hanno ballato, e hanno ancora il sorriso stampato sulla faccia. Credo, innanzitutto, che abbia a che fare con la purezza della musica. Ogni volta, con la Blues Brothers Band, alla fine del medley d’apertura il mio stomaco duole, perché ho suonato con così tanta forza, intensità, energia. La stessa band suona in tal modo. Credo che la gente capisca che non c’è alcun manierismo, nessuna trovata tecnica o tecnologica, o scenica.
I Blues Brothers sono una band che suona acustico, e i classici in repertorio producono da sé la voglia di muoversi, toccano nel profondo e le persone continuano a tornare. E a conferma di quello che dico ci sono i tanti giovani fra il pubblico, perché a sentirci non vengono solo quelli della nostra età. Pure i giovani ballano, ma cantano anche tutti i testi. Non so come questo avvenga, ma mi piace. Alcune sere fa abbiamo suonato in un paesino in provincia di Reggio Calabria, Siderno: arrivando in auto, guidando verso il mare, sembrava un posto deserto; per un attimo abbiamo pensato che saremmo saliti sul palco e davanti a noi non ci sarebbe stato nessuno; e invece sono arrivati in 5mila, tutti stipati. La cosa continua a funzionare e io sono sempre felice.
Nell’agosto del 2021, John Landis venne al Locarno Film Festival per ritirare il Pardo d’onore. Ci disse che tra le cose belle di ‘The Blues Brothers’ c'è il fatto che tutti erano contenti di esserci, che fu una buona esperienza per lui e per voi, “tutti molto collaborativi”…
Per noi tutti fu una grande avventura e un’esperienza nuova, perché nessuno era mai stato in un film prima di allora. Si trattava di recitare per la prima volta, anche se, praticamente, portavamo in scena noi stessi. Uno degli assistenti alla regia ci disse che lo staff, saputo che noi musicisti avremmo dovuto recitare, era molto scettico e provò ansia per una decisione che avrebbe potuto portare al disastro; pochi giorni dopo ci disse che il loro momento preferito del film era quando la band era sul set. Perché quella era una band divertente, Duck Dunn (Donald ‘Duck’ Dunn, ndr), Alan Rubin, tutti con un senso dell’ironia sopraffino. Stringemmo un rapporto molto intenso con la crew, con le persone delle luci, con quelle del suono, del guardaroba, gente molto simpatica. Landis, devo ammetterlo, contribuì a creare un’atmosfera amorevole e priva di tensioni. Si rideva molto con lui, perché è un gran raccontatore di barzellette; io pure, e con me anche Duck Dunn e Steve Cropper. E un’altra cosa: eravamo a Los Angeles, alloggiavamo in un hotel prestigioso, e ogni tanto passavamo del tempo con la star di Hollywood, Telly Savalas, che se ne stava in piscina con Cab Calloway.
Keystone
Nel negozio di strumenti musicali di Ray (Charles)
Cito altre parole di John Landis, raccolte sempre nella stessa occasione: “Credo che un film così si possa fare anche oggi. Non è una questione di nomi o di artisti. La questione è piuttosto trovare chi mi darebbe i soldi”.
Non so se si potrebbe ancora girare un film così. Quello che posso dire è che, se mi dovessi basare sull’ironia contenuta nel film, oggi è così tutto politically correct che non saprei come un nuovo ‘The Blues Brothers’ sarebbe accolto (ride, ndr). La gente è così spaventata da tutto che, davvero, non saprei dire. Da parte nostra, noi siamo sempre stati una band multietnica, e il nostro sense of humor era totalmente rilassato. Quanto alla fattibilità, dal punto di vista economico Landis ne saprà senz’altro più di me. Ciò che posso dire è che i due film sono state esperienze magnifiche per tutti noi.
Nel secondo, in particolare, sarà stato il fatto che eravamo tutti più adulti, e forse più saggi, ogni giorno sul set, specialmente quando i miei colleghi avevano scene singole, andavo a conoscere ogni singola persona coinvolta, dagli assistenti agli stuntman – e a uno di loro diedi qualche lezione di sassofono –, dagli elettricisti ai carpentieri, e capii, proprio in quell’occasione, che il successo di un film dipende anche da quelle persone, professionali, devote al lavoro, meravigliose.
C’è un ricordo particolare che vale per lei più di altri?
Una delle scene di chiusura del secondo film, quando siamo tutti in auto; Landis venne al finestrino e disse “Stop! Perfetto, siete tutti liberi!”. Improvvisamente, dopo quasi tre mesi di riprese a Toronto, ebbi una sensazione di smarrimento, il piccolo dolore che era tutto finito e tornavo a New York dopo avere trascorso del tempo bellissimo con gente fantastica. Sono molto riconoscente per quello che mi è stato permesso di vivere in quei giorni. Nel primo film, John Belushi a Danny Aykroyd furono generosi con noi, si spesero affinché fossimo trattati nel migliore dei modi. Danny fece lo stesso nel film successivo, e con lui anche Joe Morton e John Goodman.
A proposito di John Belushi: Landis disse che durante la realizzazione del film lo diedero per morto almeno un paio di volte, ma che nonostante la dipendenza dalla droga, che lo rese ‘progressivamente incontrollabile’, era una ‘persona meravigliosa’…
È vero. Se c’era una sola ragione in più dell’essere generoso, perspicace, era che ti leggeva nel cuore, e tutti lo amavano per quello. La notizia della sua morte fu un grande shock; fare la sua conoscenza, per me è stato godere di un enorme tesoro.
Dell’immortalità dei Blues Brothers, come film e come band, qualcosa abbiamo capito. E di quella di Lou Marini? C’è un segreto grazie al quale si può collaborare indistintamente con Frank Zappa, gli Steely Dan, James Taylor e grandi del jazz come Buddy Rich e Woody Herman, a parte saper suonare bene il proprio strumento?
(Ride, ndr) Un amico mi ha fatto notare come io mi ritrovi sempre ‘a cavallo’. Ero nel primo Saturday Night Live, che fu un grande successo, nei Blood Sweat & Tears all’apice della loro fama, in ‘The Blues Brothers’, e negli ultimi 23 anni con James Taylor, con il quale tornerò a suonare una volta terminato questo tour europeo con la Blues Brothers Band. Mi guardo intorno ogni sera, penso alle band con le quali ho avuto la fortuna di suonare e mi dico che ogni concerto insieme a queste persone è un’occasione in più per dare il meglio, e godermi lo stare in loro compagnia. Il regalo più grande per un musicista come me è quello di suonare con persone come Steve Gadd, Larry Goldings, se parlo della band di James Taylor, o con Leon Pendarvis, per esempio, se parlo della Blues Brothers Band, che sono alcuni dei musicisti più talentuosi e insieme più divertenti che io abbia mai incontrato. Ma non do niente per scontato, sto ancora studiando…
Con James Taylor lei si prende la scena in ‘How Sweet It Is (To Be Loved By You)’, un classico del suo repertorio, anche se in Europa non abbiamo avuto grande fortuna di vedervi insieme…
È vero, con James Taylor abbiamo fatto solo un tour europeo con i fiati, mentre negli Stati Uniti siamo costantemente nella formazione che comprende me e Walt Fowler, che suona anche le tastiere, grande musicista. Lungo gli anni, le composizioni di James che prevedono i fiati dal vivo sono diventate diciannove. Quando sono con lui suono diversi flauti, clarinetto, sax baritono, tenore, alto e soprano. Ho una decina di strumenti sul palco, li devo suonare tutti e lo faccio con piacere.
Dimenticavo: la sua scena preferita in ‘The Blues Brothers’?
Senz’altro quella con Aretha Franklin, in ‘Think’. La provammo in un’enorme sala prove di una scuola di danza, di fronte a un grande specchio, diretti da un ottimo coreografo. Ma quando mi ritrovai sul set, il bancone del bar sul quale mi venne chiesto di suonare e ballare era molto stretto e alto rispetto a quelli abituali, e muoversi lì sopra fu un’esperienza un po’ pericolosa, anche perché dovevo stare attento a riprodurre l’assolo esattamente come suonato nella base pre-registrata. Ci tenevo, perché spesso nei film, e odio quando questo accade, si vedono musicisti che suonano e non c’è alcun sax che sta suonando, o il sax suona e loro hanno lo strumento lontanissimo dalla bocca. Volevo che fosse tutto giusto. Fu una scena un po’ folle, e a film montato feci notare a Landis che mi aveva tagliato la testa dall’inquadratura un sacco di volte. Ma mi aveva messo così in alto che non potevo lamentarmi troppo…
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Sul bancone, in ‘Think’