Tra Dylan e il cinema, il Father Folk laghée in Rotonda il 5 agosto, in pieno Locarno Film Festival (aspettando il nuovo album ‘Manoglia’)
Il Father Folk laghée è tornato, ma è solo un’anticipazione di quello che accadrà a ottobre, quando sboccerà il nuovo album ‘Manoglia’ (Magnolia, in dialetto del lago), di cui si annuncia la “profonda impronta naturalistica e ambientale”. Il prossimo 5 agosto, Davide Van De Sfroos porta il suo ‘Live Estate 2023’ in Rotonda (by la Mobiliare), a Locarno Film Festival iniziato, un tour estivo di cui possiamo godere mentre è solo l’Italia, per il momento, che può godersi quello di ‘Un uomo chiamato Dylan’, altro bel capitolo di musica narrata ‘alla Guaitamacchi’ (Ezio), un viaggio non solo musicale alla scoperta del musicista e Premio Nobel. Ma riavvolgiamo la pellicola...
Quanta parte della vita di Davide Van De Sfroos si è preso, o si prende ancora, il cinema?
Libro, pellicola e suono sono stati i tre elementi alchemici senza i quali, probabilmente, io sarei stato un’altra persona o comunque avrei avuto un altro tipo di esistenza. Il mio rapporto con il cinema è sempre stato totale, vuoi perché sono cresciuto in un tempo in cui la televisione era due o tre canali al massimo, e negli oratori o nei cinema di paese, quando davano un film, anche trash, la sua forza è sempre stata capace di plasmare la vita del paese. Se guardavi ‘Sentieri selvaggi’, era facile entrare all’osteria e pensare che fosse un saloon, o guardare i contadini e immaginarli come cowboy. Il film, almeno fino a un certo punto, cambiava il linguaggio.
Direi che tante mie canzoni sono nate in modo cinematografico. Essendo microstorie, cortometraggi cantati anziché filmati, e non avendo io i mezzi per essere cineoperatore o regista, credo di avere usato la mia arte per raccontare queste storie in modo molto cinematografico. Oggi come oggi posso dire che mio figlio, il maggiore, sta studiando da videomaker a Milano, quindi sta studiando il cinema, il modo per farlo. Probabilmente è arrivato là dove io non sarei mai potuto arrivare. Ma credo che la mia stessa vita sia stata ‘girata’, come fosse un film.
E quale film sarebbe?
Non un film d’azione all’americana, non particolarmente complesso, ma senz’altro uno di quei film on the road. Mi è stata data la possibilità dal destino, – anche se un po’ me la sono cercata – di poter girare tantissimo, luoghi, situazioni, gente, palchi. Ragionavo con i miei figli su quanti concerti hanno già visto nella loro vita, mentre io, nella mia, ne avrò visti due o tre. Mi hanno risposto: “Certo, ma poi i concerti li hai fatti tu!”. È vero, ma l’ho fatto per pareggiare questa mancanza. Loro ogni settimana partono e vanno a Milano, a Campovolo! (Ride, ndr). Il mio è stato fino a oggi un viaggio d’incontri, di luoghi e persone che poi, direttamente o indirettamente, sono finiti nelle canzoni.
Come sarà il Van De Sfroos del Locarno Festival? Che tour è il ‘Live Estate 2023’?
In questo momento il tour è molto libero, rispecchia il momento di attesa di un disco nuovo, dalle tinte molto pacate e acustiche, ma siamo anche reduci da un album di liberazione dal brutto periodo del Covid, ‘Maader Folk’, e da un disco live che è stato un po’ la celebrazione di questo viaggio tra canzoni vecchie e nuove. Ancora una volta, il gioco sarà cantare qualcosa di recente ma anche tanto passato, per tirare fuori dai cassetti le canzoni che le persone continuano di volta in volta a voler veder girare sulla giostra delle possibilità.
A proposito di ‘Manoglia’: nelle note promozionali, si parla di “semi piantati nella serra artistica e creativa (…) curati con pazienza, costanza e amore”…
Con ‘Manoglia’ non si cerca di stupire con effetti speciali, con l’artiglieria pesante, ma di avvicinarsi alla luce autunnale prendendo tutte quelle canzoni un po’ minimali, trasognate, immaginifiche, legate a un mondo fatto di microvibrazioni, che erano lì che chiamavano. Tante persone che hanno avuto l’occasione di ascoltarle, mi hanno chiesto quando avrei fatto un disco pacato, acustico con quei brani. Mi sono detto che non avrei trovato una scusa, ma avrei fatto in modo che fosse il disco di tutte quelle cose, un disco crepuscolare ma anche molto vivo, fatto di quel respiro del quale una persona che sta, come me, nel mondo in cui vivo io ha bisogno come il pane e come l’acqua. In sintesi, non sarà, magari, un disco chiassoso, da grandi brani radiofonici, da tormentoni, perché tutto sommato non è mai stato nel mio caso, ma raggiungerà sottovoce l’anima di tanti. Sono sicuro che queste canzoni non sono state scritte solo da me, ma anche da tanti sguardi, da tanti incontri, da tante figure con le quali mi sono relazionato lungo il viaggio.
‘Un uomo chiamato Bob Dylan’. Ho ascoltato in rete ‘Un gran brütt tempuraal’, che poi sarebbe ‘A Hard Rain’s A-Gonna Fall’ in dialetto, e sta in piedi meglio di molto Dylan tradotto, un po’ forzatamente, in italiano…
Molto di quello che canto nello spettacolo è in lingua inglese, però sì, ci sono anche parentesi come quella di cui parli. Dico subito che portare in giro Dylan, ospite dello show di Enzo Guaitamacchi con due grandissime cantanti come Andrea Mirò e Brunella Boschetti, è stato, oltre che un bell’invito, anche un mettersi alla prova. Era da tanto tempo che non tornavo ad approfondire un individuo che è stato così caratterizzante nel periodo della mia infanzia, nell’adolescenza, in gioventù. Pensavo di avere già capito tutto di lui e invece mi sbagliavo, perché Dylan è come una scatola cinese, è un uomo che ha vissuto tre o quattro vite, che hai amato e odiato più volte, che ti ha lasciato con l’amaro in bocca perché non capivi dove si stesse spostando, dove ti stesse portando. A ottantadue anni e due mesi, è ancora un essere umano che va sul palco e continua a fare esattamente quello che gli passa per la testa senza scendere a compromessi con nessuno se non con il proprio Jokerman interiore.
Queste serate stanno funzionando molto bene perché la gente ci lascia narrare, e a me che sono lì pare di vivere un viaggio che solo fino a un certo punto dipende da me, ma che da un momento in poi pare arrivare dalla forza, dallo spirito di questo artista, almeno rocambolesco.
C’è un altro ottantenne, per la precisione un 83enne, nella tua vita recente: com’è stato cantare in ‘Canzoni da intorto’ di Francesco Guccini?
È stata una partecipazione minimale, ma mi ha fatto tanto piacere poter incontrare nuovamente Francesco dalle sue parti, cosa che tradizionalmente avviene con tutti coloro che hanno lavorato in un suo disco. In ‘Ma mi…’ mi sono ritrovato, alla fine, quasi a interpretare il commissario del sud, una cosa un po’ bizzarra (ride, ndr). Di ‘Addio Lugano bella’ (‘Addio a Lugano’, ndr), invece, ricordo di avere registrato alcuni passaggi di chitarra e qualche urlo finale un po’ etnico. Sono state due cose interessanti: nel caso di ‘Addio Lugano bella’ perché la Svizzera ha sempre fatto parte del mio percorso, e quella canzone mi è capitato di sentirla spesso e anche di viverla; l’altra mi ha fatto pensare a quando da piccolo non capivo di cosa stessero parlando. La partecipazione con Guccini è stata un bel regalo da parte dell’etichetta e del Maestrone, con il quale è sempre bello scambiare qualche parola.