Con Manuela Kustermann, regina del teatro d’avanguardia, nello Shakespeare della regista ungherese Kriszta Székely, al Lac il 5 e 6 aprile
Il due volte Premio Ubu Paolo Pierobon, la giovane regista in ascesa Kriszta Székely, il duca di Gloucester, tra i cattivi per eccellenza, e William Shakespeare. A completamento, il cammeo di un simbolo del teatro d’avanguardia, Manuela Kustermann, e il Riccardo III liberamente trasposto ai giorni nostri (ma nemmeno troppo) è servito.
L’ultima delle quattro opere teatrali della tetralogia di Shakespeare sulla storia inglese va in scena al Lac i prossimi 5 e 6 aprile, con tutto il suo carico di violenza manipolatoria. È proprio Kustermann a introdurlo per noi, partendo da una ricorrenza storica…
Manuela Kustermann: nel 1963, Shakespeare rappresentò il suo esordio a teatro; sessant’anni dopo, a Lugano è di nuovo Shakespeare. Ricorda quella sua ‘prima’?
È vero, nel ’63 fu L’Amleto con Carmelo Bene. Avevo già avuto alcune esperienze teatrali, un Ibsen recitato in una piccola compagnia, ma quello con Carmelo Bene si può davvero considerare un esordio. In quel caso era l’Amleto di Laforgue, abbinato a un Pinocchio a Spoleto, due lavori che portavamo in scena a giorni alterni nei giardini dove ancora adesso c’è la sfera di Buckminster Fuller (‘Spoletosfera’, struttura tecnica chiamata “cupola geodetica”, donata alla città nel 1967 dall’autore/inventore/architetto statunitense, ndr). Recitavamo dentro un tendone da circo. Questo Riccardo III, invece, è ambientato in una baita di montagna, è un adattamento.
Si dice che la forza dei classici sia quella di essere sempre attuali e nel classico in arrivo al Lac si parla di un dittatore: mai così attuale, verrebbe da dire…
Sì, soprattutto Riccardo III, emblema del despota, del manipolatore più che del dittatore. Riccardo è colui che manipola il prossimo con la seduzione dell’intelligenza e del potere, per ascendere sempre più. La cosa ricorrente e in un certo senso ‘bella’ è che una volta arrivati al potere assoluto, al vertice della piramide, essa si sgretola. E a tre quarti del secondo tempo, Riccardo III inizia la sua discesa all’inferno.
Qual è il fascino del tiranno, del dittatore?
In Riccardo III si parla innanzitutto di una famiglia. Conta l’appartenenza a un clan, a quella piramide. Le persone attratte dal dittatore possono non avere né la capacità né la volontà di ribellarsi, o essere ambiziose e, finché tutto va bene, fare il gioco del potente. Si lasciano manipolare spesso da una capacità innata che ha la malvagità, oppure non sono altro che felici e contenti di stare nel nucleo prodotto da un mostro, e quando se ne accorgono è troppo tardi. In questa versione, il vento malefico di Riccardo soffia su tutti in modo percepibile, e la maledizione da parte della madre dà il via alla catena di altri orrori che lo porterà a essere ucciso. Rispetto a Shakespeare, nel nostro Riccardo III ci sono numerose modifiche, alcune parti arrivano addirittura da altre sue opere, così come deciso da Ármin Szabó-Székely, che ha curato l’adattamento. E forse, qui, ‘Riccardo III’ poteva essere un sottotitolo, perché c’è molto di drammaturgia contemporanea.
Lei è definita ‘regina del teatro d’avanguardia’, ‘signora del teatro sperimentale’: quanto questo spettacolo rispetta quelle definizioni, quanto ritrova
in esso del suo essere libera, innovativa?
Paradossalmente, molto. Ho accettato questa scrittura dopo anni in cui mi sono dedicata soltanto al mio teatro, a stare in scena da me al Teatro Vascello. Ho accettato per la curiosità di lavorare con questa regista ungherese della quale avevo visto un meraviglioso Zio Vanja. E poi perché il Riccardo III lo fa il grande Paolo Pierobon. La mia intuizione era corretta: è stata davvero una bellissima esperienza. Kriszta Székely parla in ungherese o in inglese, non so quanto le sfumature della lingua italiana la riguardino, ma ha gestito la drammaturgia partendo da un’estetica del personaggio; ci ha guidati attraverso la gestualità, senza mai dare indicazioni né di ritmo né d’intonazione. Questa sua visione, in soli trenta giorni di prove, ha consentito la composizione di una compagnia straordinaria, che è uno dei motivi del successo dello spettacolo. L’altro motivo è che l’adattamento, che potrebbe urtare certe sensibilità ‘conservative’, dal punto vista letterario rispecchia abbastanza fedelmente la prosa di Shakespeare.
Da oltre trent’anni lei è direttrice del Teatro Vascello di Roma, punto di riferimento del teatro di ricerca. A ben vedere, non sono molte in Italia le direttrici artistiche donna: lei conosce il perché?
(Sorride, ndr) È una domanda che non dovrebbe fare a me. Credo che persista un pregiudizio, soprattutto dopo una delle ultime riforme, che vuole i grandi stabili assimilati, nel pensiero del Ministero della cultura, alle grandi imprese, in mano a uomini anche se molte donne imprenditrici si sono dimostrate assai capaci in quei ruoli. Benissimo i direttori, bene i presidenti e quelli generali, dunque, ma quanto a direttori artistici sarebbe bene pensare a più figure femminili, che hanno visioni differenti. Penso però al Festival di Spoleto, dove è arrivata Monique Veaute, e mi dico che forse qualcosa sta cambiando.
Andando a ripercorrere la sua storia, della quale fa parte il suo compagno Giancarlo Nanni, che non c’è più dal 2010, lei ha definito i suoi inizi di carriera un momento di ‘esplosione delle arti’. Oggi vive ancora esplosioni artistiche?
No. Ora esistono dei picchi, e meno male che ci sono, ma quel momento è irripetibile. Non fu soltanto un’esplosione dell’arte teatrale e delle compagnie, ma anche della musica, della danza, della pittura. È stato un momento che probabilmente si potrà ripetere, ma non ora. Oggi in campo teatrale ci sono molti ottimi giovani registi, io collaboro con alcuni di questi. Emergono anche grazie alla Biennale Teatro di Antonio Latella, ma io non vivo esplosioni, piuttosto un mare piatto. Si tratta di cicli storici ed è abbastanza normale, soprattutto in un momento come questo.
Ciò di cui sento la mancanza oggi è una drammaturgia italiana: a parte poche eccezioni, gli autori incidono molto poco, anche per colpa dei teatri stabili che dovrebbero essere capofila nel programmare autori italiani, forti di un pubblico importante, di scenografie e attori importanti. Ecco, vedo da una parte autori italiani affetti da pigrizia e dall’altra un buon vivaio di attori e soprattutto registi. Székely è una di essi.
In questo ‘mare piatto’, lei va sul palco con lo stesso entusiasmo d’un tempo?
Quello non cambia, la routine non mi appartiene. In questo Riccardo III, il mio è un cammeo, ma la stanchezza di quando finisco mi dice di quanta energia producano anche poche battute. Qualcuno ha detto che non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori. E mai prendere sottogamba anche un cammeo!
Io penso che alla fine, certo, il protagonista è lo straordinario Pierobon, ma il nostro Riccardo III è corale, e questo va ancora a merito di Székely e ad alcuni suoi escamotage, come certe dissolvenze tipicamente cinematografiche. Sono felice di avere accettato la parte, felice che si sia pensato a me per questa bella esperienza insieme ad attori bravissimi e deliziosi (www.luganolac.ch).
Luigi De Palma
Scatto d’insieme