Fuori, voci di Chatrian attratto dall’Italia; in sala, applausi per Zhang Lu, Von Trotta, Garrel con la fotografia di Berta e per l’originale ‘Tótem’
Succede spesso alla Berlinale, dove fin dai tempi di Moritz de Hadeln, ogni anno si annunciava il suo successore. Quest’anno le voci riguardano Carlo Chatrian, al quarto anno a Berlino, dove dovrebbe per contratto restare un altro anno, ma sembra che davanti al direttore artistico si apra una strada più interessante in Italia, di certo con maggiori poteri di quelli che ha qui, limitati al concorso e a poco altro, su un vastissimo programma. Staremo a vedere se, finito il festival, qualche voce si concretizzerà.
Di certo, quest’anno Chatrian lascia un’eredità importante per la tanta qualità dei film visti in competizione e nella sezione Berlinale Special. Pensiamo a un film in concorso come ‘Bai Ta Zhi Guang’ (La torre senza ombra), film scritto e diretto da Zhang Lu. Filmmaker cinese, coreano di terza generazione nato a Yanbian, Jilin, Cina, nel 1962, è un personaggio straordinario: professore di Università, regista cinematografico, autore di racconti e romanzi famosi in Cina. Come questo ‘Bai Ta Zhi Guang’, in cui porta lo spettatore in un mondo segnato da rumori decisi. Straordinario il suono che il sound designer Wang Ranregalka offre al film, facendolo diventare il vero protagonista di una storia nella quale gli esseri umani sono afoni ai sentimenti e alle emozioni. Il regista ci fa conoscere Gu Wentong (il bravo e intenso Xin Baiqing), un critico gastronomico divorziato, con una figlia che ha fatto crescere dalla sorella. La sua vita passa da un’ubriacatura all’altra, e da un pacchetto di sigarette a quello dopo, ma tutto cambia quando il cognato gli rivela che suo padre – che credeva morto – vive invece a Beidaihe, una città costiera a 300 chilometri a nord-est di Pechino, celatosi alla famiglia perché implicato in uno strano e non accertato caso di violenza contro una donna in autobus (lei lo incolpava di averle palpeggiato i glutei). Visto il processo che lo attendeva, per l’onorabilità dei suoi cari aveva preso la via dell’esilio volontario. Spinto da una sua giovane collega fotografa Ouyang Wenhui (una brava Huang Yao), Wentong decide di ritrovare il padre; lei, intanto, cerca di coinvolgerlo in una storia d’amore che lui fatica ad accettare. I due incontrano l’uomo: lui discute, finalmente comprende il padre, ma perde lei. Forse sotto la Pagoda Bianca che ha segnato il loro incontro lui incontrerà, pacificato, un’altra donna, finalmente madre per la sua bambina. Un film che regala emozioni profonde che canta la vita e il cinema e merita gli applausi.
Da ‘Bai Ta Zhi Guang’, di Zhang Lu
Più complesso, sempre in competizione, l’atteso ‘Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste’ di Margarethe von Trotta, coproduzione svizzera con Austria e Germania, scritto dalla stessa Von Trotta con i documenti che riguardavano il conflittuale rapporto amoroso tra la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann e il drammaturgo svizzero Max Frisch. I due si incontrano per la prima volta a Parigi nell’estate del 1958, quando il problema è che lui e lei sono già celebrità internazionali del mondo letterario. Lui invidia la fama di lei; lei trova insopportabile il rumore della sua macchina da scrivere e la sua gelosia. Lui ama Zurigo, lei adora Roma (come la regista, e si comprende) e con queste idee la loro storia va avanti per quattro anni, fino a quando lei decide di affrontare con Adolf Opel il deserto e la sua vita già libera brucia la gioia del vivere estremo, come il deserto. Chiaramente, la regista prende la parte della poetessa e disegna un ritratto di donna indimenticabile non solo per le sue posizioni progressiste, ma anche per aver realizzato il suo vivere. Applausi alla regista, alla sua musa la bravissima Vicky Krieps e a tutto il cast di un film da non dimenticare.
Wolfgang Ennenbach
Da ‘Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste’ (nella foto, Vicky Krieps)
Su livelli ancora maggiori si muove ‘Le grand chariot’, ancora un film svizzero coprodotto con la Francia, quello in cui Philippe Garrel chiama a raccolta tre dei suoi figli: Louis Garrel, Esther Garrel e Lena Garrel, per portare sullo schermo il destino di una famiglia di burattinai che in breve tempo si trova di fronte alle necessità, dentro una storia vissuta in un tempo in cui troppi desideri egoistici segnano l’esistenza di qualsiasi compagnia teatrale, e che gran teatro è quello dei burattini che il regista racconta. In ‘Le grand chariot’ vediamo la famiglia far felici i bambini sotto la guida attenta del padre; certo, faticano a mettere in tavola qualcosa da mangiare, ma è il teatro, quello non sovvenzionato, non prono ai poteri, quello che nella libertà esalta il dignitoso vivere. A far loro vestiti è la nonna, ma tutto cambia quando l’uomo muore; gli altri giovani uomini, Louis e Pieter (quest’ultimo aggiuntosi da poco al gruppo) lasciano la compagnia, il primo per fare la carriera dell’attore e l’altro per fare il pittore. Ma mentre il primo ha successo, il secondo fallisce due volte: una come uomo, lasciando la donna che gli aveva dato un figlio per mettersi con una ancor più giovane, e poi ritrovarsi così preso dal proprio ego da finire in manicomio. Intanto Louis si prende cura con infinito amore della madre e del bambino: insieme costruiscono una nuova famiglia, la nonna muore e la compagnia delle sorelle non fa rimpiangere i maschi che mancano. Film esaltante per il suo essere arte che racconta arte, film vero che canta il pericolo di un mondo dimentico dei piccoli teatri che vanno invece aiutati. Certo, un teatro di burattini non è un ristorante o un bar, da aiutare nella crisi, ma è qualcosa di più: è l’umanità che esiste e Garrel lo sa, lasciando a Renato Berta il completamento del suo lavoro con una splendida fotografia.
Benjamin Baltimore
Da ‘Le grand chariot’ (nella foto: Francine Bergé, Louis Garrel ed Aurelién Recoing)
Ultimo di questi quattro film in concorso è il messicano ‘Tótem’. È firmato dalla regista Lila Avilés, che ci conduce in quel clima cinematografico messicano che tanto amava Luis Buñuel, con la morte e la vita che si intrecciano, con le fattucchiere, con gli adulti che sembrano già marci e con i bambini e le bambine che guardano con lo sguardo malato lo squallido mondo che si squarcia di fronte a loro. Questo ha fatto Lila Avilés e il risultato è un film che disturba, che può non piacere per le troppe parole inutili che si affastellano a formare angusti muri d’incomunicazione, per la silenziosa violenza che le bambine subiscono, per quell’abbracciarsi prima di morire che non ruba niente al tempo. Ma ciò che disturba di più è che il film non segue le regole di Netflix, ma solo quelle di un cinema originale.
Da ‘Tótem’, di Lila Avilés (nella foto, Naima Senties)
Fuori concorso non ci ha convinto ‘Boom! Boom! The World vs. Boris Becker’, documentario scritto e diretto da Alex Gibney, un film che celebrando i trionfi sportivi di Boris Becker evita qualsiasi approfondimento sulle vicende che, nel male, hanno contraddistinto la sua vita dorata. Ecco un bel film da vedere come inserto nei giornali sportivi, perché si sa, ai campioni si perdona tutto.
Keystone
Boris Becker con la partner Lilian de Carvalho Monteiro