Sorvolando sul tanto atteso ‘Blackberry’, lode a Rolf de Heer per ‘The Survival of Kindness’, favola morale su di un mondo che non sa amarsi
Pioviggina a Berlino e fa freddo, mentre nelle sale sono passati in concorso, proprio venerdì 17, i primi tre film di una competizione che raccoglie 18 fra autori e autrici. Ad aprire le danze l’atteso ‘BlackBerry’ di Matt Johnson, un film sullo smartphone più famoso al mondo prima dell’entrata in campo di Steve Jobs. È un biopic su un telefonino, su Mike Lazaridis che, con il suo gruppo di studio, lo inventò e su Jim Balsillie che lo commercializzò, facendolo diventare un gigante della comunicazione mondiale. È purtroppo un film noioso, ripetitivo e incapace di emozionare. Ci aspettavamo di più da una storia che in origine poteva essere interessante; nel film si cerca anche una dimensione sociale dell’avvento dello smartphone, si presenta un gruppo di allegri scienziati festaioli e ci si aspetta proprio un film diverso; e invece ci troviamo nel solito ritratto a fosche tinte del mondo scientifico e commerciale statunitense, un ritratto maschilista e vuoto d’idee, di cui non si sentiva il bisogno. Eppure, il BlackBerry fu un telefono cellulare coinvolgente che cambiò il modo in cui il mondo lavorava, giocava e comunicava. Si poteva dar vita a un film migliore.
Non meno deludente è il secondo film in concorso ‘Irgendwann werden wir uns alles erzählen’ (Un giorno ci racconteremo tutto) diretto e scritto da Emily Atef che lo ha tratto dall’omonimo best seller di Daniela Krien. Per questo film vale la pena di ripescare una recensione al libro della Neue Zürcher Zeitung dell’aprile del 2012, in cui si leggeva: "Il linguaggio semplice di una ragazza di 16 anni, scelto da Daniela Krien, sembra troppo semplice e poco poetico e a volte banale". Anche il linguaggio cinematografico di Emily Atef sembra troppo semplice e poco poetico e a volte banale, e poi si porta il peso di aver scelto come protagonista del personaggio della 16enne la 22enne Marlene Burow che toglie ogni prurito alla vicenda, che subito diventa un’altra storia rispetto al testo originale. Non è solo il corpo più maturo ma è anche la pesantezza dei gesti, la sua statuarietà.
Il film è ambientato in una fattoria al confine tedesco occidentale-tedesco orientale che ha da poco smesso di essere tale, nell’estate del 1990; qui vive una famiglia patriarcale in attesa di un figliol prodigo, e con loro c’è la 16enne Maria, venuta a vivere con il figlio del capofamiglia, un ragazzo che la trascura per la fotografia. Lei legge I Karamazov di Dostoevskij e mentre vaga tra prati e campi di grano incontra un uomo molto più vecchio di lei e ne diventa l’amante; ma non si può nascondere l’amore e allora tutto precipita.
Di ben altro valore è ‘The Survival of Kindness’ di Rolf de Heer. Il regista, australiano di origine olandese, dà vita a una scottante favola morale dove gli uomini, per colpa loro, si sono ritrovati in una incomprensibile babele linguistica, e dove per colpa dell’inquinamento totale portano tutti maschere antigas; chi non le porta è destinato ad avere la pelle corrosa. Qui, nella notte, dopo una festa con una torta che è dolce plastico del mondo che vivono, scopriamo, rinchiusa in una gabbia per animali feroci, BlackWoman (una straordinaria Mwajemi Hussein, esordiente sullo schermo); il mattino dopo, gli uomini la portano (sempre nella gabbia) in mezzo al deserto e l’abbandonano sotto un sole bruciante. Con folle caparbietà, BlackWoman riesce a liberarsi e la vediamo camminare oltre il deserto in un paesaggio abbandonato e spesso brullo; nel suo viaggiare incontra uomini impiccati, fucilati, ammalati, un mondo di morte; arriva poi nella città del grande inquinamento e conosce BrownGirl (una intensa Deepthi Sharma) e BrownBoy (un bravo Darsan Sharma), due giovani che la vogliono aiutare a tornare verso la sua casa.
Vengono tutti catturati, costretti a levarsi la maschera e mandati nella zona tagliere dell’immensa fonderia. BlackWoman riesce a fuggire e quando ritrova gli amici scopre che sono malati; prende con sé BrownGirl, arrivano fino a un grande lago pulito e BlackWoman la lascia morire in quel luogo prima di ritornare nel deserto e richiudersi a morire nella sua gabbia. Era tutto un sogno prima di morire, e l’inquinamento e la malattia e gli uomini mascherati come nel Covid, e il destino di chi è diverso e di un’umanità che non sa amarsi. Tutto esiste nella fantastica scrittura di un Rolf de Heer che sembra volerci chiedere: "Cosa resta della nostra umanità"?