Nella Sala Teatro sono scomparsi gli applausi da stadio, ma i consensi sono sembrati insufficienti: Urbański primo direttore ospite è una fortuna
Da una festa campestre nei Carpazi ai turbamenti di un giovane romantico alla proclamazione delle idee dell’illuminismo: quasi due secoli di storia della musica in retromarcia, senza un filo conduttore palese, nel concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Krzysztof Urbański, con solista di pianoforte Garrick Ohlsson. In programma: di Wojciech Kilar (1932-2013) ‘Orawa’ per orchestra d’archi (1986); di Fryderyk Chopin (1810-1849) Concerto per pianoforte n. 2 (1829), di Ludwig van Beethoven (1770-1827) Sinfonia n. 3 ‘Eroica’ (1804).
Il nome del compositore polacco Kilar è poco noto al grande pubblico, che tuttavia conosce le sue musiche in alcuni film famosi. L’Orawa è un fiume che dà il nome a una regione dei Carpazi polacchi al confine con la Slovacchia e la breve composizione di Kilar ne cita sue musiche popolari. È trafitta da un ritmo incalzante di antica Toccata, ma soffre di palese anacronismo, sembra musica dell’Ottocento. Termina con un "hey" gridato a voce dagli strumentisti ed è perciò un brano ideale per lanciare in allegria il programma di un concerto. Krzysztof Urbański, nel mezzo di una travolgente carriera internazionale, se lo tiene stretto, lo propone sovente nei suoi programmi, forse per ricordare la sua origine polacca. I 34 archi dell’Osi l’hanno eseguito in piedi, si sono divertiti e ne hanno dato un’esecuzione strepitosa.
Chissà quante volte il settantaquattrenne Garrick Ohlsson ha suonato in pubblico il secondo Concerto di Chopin. Eppure, da vero grande interprete, giovedì l’ha saputo rendere con l’emozione di una prima volta. Sorpreso forse dalla qualità dell’orchestra si è calato in un dialogo con essa di dimensione cameristica. È la prima volta che mi è parso di avvertire come le passioni anche torbide di Chopin siano vicine agli ameni inganni del suo coetaneo Leopardi. Il pubblico che alla fine ha esitato a sciogliere l’applauso forse pensava: "O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor?".
L’Eroica eseguita da un’orchestra con meno di quaranta archi è una correttezza storica perché corrisponde con buona approssimazione all’organico di cui disponeva Beethoven. Ascoltarla diretta senza battere il tempo, con gesti eleganti che non comandano, ma evocano e suggeriscono eppure non mancano un solo attacco a ogni settore dell’orchestra, è un privilegio oggi assai frequente, perché sulla scena ci sono ormai tanti eccellenti direttori. Ciò non toglie che sia una fortuna poter salutare Krzysztof Urbański primo direttore ospite dell’Osi. La sua lettura ha ricostruito nota per nota la Sinfonia, liberandola da ogni incrostazione di due secoli d’interpretazioni. Ma va pur detto che in questa operazione l’orchestra è stata almeno tanto brava quanto il direttore. Nella Svizzera italiana stiamo davvero vivendo una stagione sinfonica meravigliosa, che non sarebbe possibile senza un salto qualitativo anche del pubblico.
Anche il pubblico è diventato più raffinato, sono scomparsi gli applausi da stadio, si fa strada il piacere di lasciar spegnere nel silenzio l’ultima nota. Ma giovedì, al termine dell’Eroica, c’è stato un pentimento: i consensi sono sembrati insufficienti e prima di congedare gli orchestrali stanchi è partito un ultimo commovente applauso ritmato, che ha lasciato un vecchio melomane con qualche lacrima sul viso.