Irina Prudkova e Valeria Gavrikova, giornaliste e collaboratrici del regista Kvedaravičius, raccontano di lui, di Mariupol e dell’impegno nella resistenza
Si alzava presto il mattino per cucinare grandi pizze da portare ai soldati al fronte. Consegnare il cibo era un’operazione molto difficile e alcuni combattenti, ancora adesso dopo tanto tempo, si ricordano il sapore delle pizze che preparava Valeria. Come quella volta in un caffè, quando un signore disse a Irina – mamma della ragazza – che non ricordava cosa lei facesse o chi fosse, ma che ricordava molto bene le buonissime pizze di sua figlia.
Questo spaccato di disarmante normalità in contesto di crisi risale al 2014, dopo la rivoluzione di Maidan e tutti i fatti che ne sono conseguiti in un crescendo di tensioni, fino all’invasione russa dello scorso 24 febbraio. Me lo hanno raccontato Irina Prudkova e Valeria Gavrikova, mamma e figlia, giornaliste, cineaste e militari volontarie, «ucraine di Mariupol!», hanno sottolineato con fierezza presentandosi, nonostante abbiano lasciato la città prima dello scoppio della guerra, perché i loro nomi figurano sulle liste nere.
© Leo Brogioni
Mamma e figlia
Le due donne sono ospiti del Film festival diritti umani Lugano (Ffdul) che le ha invitate quali relatrici agli approfondimenti dei film ‘Mariupolis’ (del 2016; in programma oggi alle 17.30 al Cinema Corso, cui segue ‘La poesia come testimonianza, resistere alla paura) e ‘Mariupolis 2’ (del 2022; proiettato ieri sera), del regista e antropologo lituano Mantas Kvedaravičius, morto – in circostanze non chiare – la scorsa primavera mentre stava fuggendo dalla città portuale sul Mar d’Azov, dove era tornato per documentare camera alla mano la quotidianità sotto le bombe e le atrocità del conflitto. Le due protagoniste di questo articolo erano collaboratrici di Kvedaravičius, i cui film sono stati prodotti proprio da Irina.
L’incontro stampa con Irina e Valeria si è svolto ieri all’Hotel Villa Castagnola di Lugano, in un primo pomeriggio di caligine spessa dove il Ceresio si mischiava col cielo grigio e piatto. Con l’indispensabile aiuto dell’interprete Lidia, mamma e figlia hanno raccontato del loro impegno in Ucraina quali militari arruolatesi volontariamente, di come una famiglia intera – la loro – sia coinvolta in questo enorme impegno di resistenza e partecipazione alle proteste. Irina – una guerriera dallo sguardo fiero e dalla parlata ferma, sebbene a tratti lasciasse trasparire commozione – non ha dimenticato suo marito, combattente in prima linea. Sollecitate, le due ospiti hanno quindi descritto la situazione disastrosa in cui versa Mariupol, riferita loro dai partigiani: «I terroristi russi hanno ucciso quasi tutti i civili; i cadaveri sono a cielo aperto in stato di decomposizione… una catastrofe ambientale ed ecologica». Irina, senza pensarci su troppo, ha quindi chiosato: «Per uscire dalla guerra e liberare la popolazione ucraina non c’è una soluzione pacifica. La liberazione può essere possibile solo con un intervento militare; a meno che gli Stati Uniti non proteggano lo spazio aereo; a meno che Putin non muoia».
Poi è arrivato il momento di raccontare dell’amico Mantas, che è sempre rimasto in contatto con loro informandosi sulle loro condizioni e sull’evoluzione della situazione; di sua moglie Hanna Bilobrova (ucraina anche lei), senza il cui coraggio e la cui caparbietà ‘Mariupolis 2’ – presentato a Cannes lo scorso maggio, dove ha ricevuto il Golden Eye – sarebbe rimasto incompiuto e quindi sconosciuto. «Per cinque giorni, Hanna ha cercato il corpo del marito in giro per la città, per recuperarlo e portarlo via. Ma non solo, grazie a lei è stato salvato tutto il materiale video con cui è stato possibile montare il film». Per la moglie e compagna del regista «era altrettanto, se non più importante salvare il girato, sacrificando l’idea di recuperare la salma del marito. Perché realizzare questo documentario era l’obiettivo principale di entrambi, tutti e due hanno lavorato per questo scopo. Rischiando la fucilazione immediata se fosse stata scoperta, Hanna ha compiuto un gesto coraggioso, anzi eroico. Mantas sarebbe stato molto orgoglioso di lei», ha detto Irina con la voce scalfita dall’emozione.
L’antropologo regista, nato in Lituania nel 1976, e tutta la squadra coinvolta nella realizzazione dei due documentari hanno consegnato al mondo testimonianze di un conflitto ancora in essere e divenute già storiche. Spaccati che aiutano a conoscere da vicino ciò che la popolazione ucraina ha vissuto e tuttora vive a poche migliaia di chilometri da qui, raccontando da dentro la quotidianità della guerra. «Come produttrice – ha affermato Prudkova – ho sempre creduto nell’importanza del suo lavoro, un lavoro capitale consegnato alla storia» e non solo del loro Paese.
Il mio tempo con loro, nella sfarzosa sala delle Colonne (se la memoria non tira brutti scherzi), è oramai agli sgoccioli. Torno allora a chiedere a mamma e secondogenita del continuo impegno in retroguardia come militari volontarie, che per Irina va avanti dal 2014, dalla guerra nel Donbass, quando portava le armi al fronte, mentre oggi rifornisce i soldati del vestiario e procura loro ogni genere di materiale che serve in prima linea. Questo grazie a una fitta rete di cui fa parte anche Valeria che, dai sotterranei, è un nodo nella comunicazione. Come per i combattenti al fronte, anche la loro vita è a rischio ogni giorno, ma resistono (rifiutando anche le numerose richieste di Mantas che si proponeva di farle fuggire). Dove trovate questa forza? «Le forze si accumulano dalla consapevolezza che i terroristi russi hanno occupato le nostre terre impossessandosi delle nostre case. È dai tempi di Maidan che non c’è alternativa, questa è l’unica strada percorribile e se la mia vita e quella della mia famiglia possono servire – ha affermato Irina – allora noi le dedichiamo a questo scopo».