laR+ L’intervista

Michele Mariotti al Lac, una ‘prima’ per tre

La Prima di Brahms, il primo concerto per violino di Prokof’ev e l’esordio della stagione Osi al Lac, tutto nelle mani del direttore d’orchestra italiano

Michele Mariotti, direttore principale del Teatro dell’Opera di Roma
(Victor Santiago)
28 settembre 2022
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«Mi trovo benissimo, si sente che sono un gruppo solido, sono velocissimi nel recepire input diversi da ogni direttore d’orchestra, si sente che si conoscono molto bene, dunque è facile fare musica ‘da camera’, intesa come ‘ascoltandosi’». È l’Orchestra della Svizzera italiana secondo Michele Mariotti, 43enne direttore d’orchestra italiano, nome di punta chiamato ad aprire la stagione ‘Osi al Lac’. Giovedì 29 settembre alle 20.30, la Sala Teatro ascolterà la Prima sinfonia di Johannes Brahms – autore con il quale l’Osi vanta lunga esperienza – e il Concerto n.1 di Sergej Prokof’ev, la cui parte solistica è affidata al 31enne violinista franco-belga Marc Bouchkov. E ascolterà un’orchestra reduce da Verdi (Traviata, produzione Lac applaudita di recente) nelle mani di un verdiano dichiarato, nato però nella città di Rossini: «L’ho respirato da bambino, Rossini, ma Verdi l’ho diretto più del doppio del mio concittadino. Verdi occupa un posto molto importante nella mia vita».

Maestro, quale posto occupano invece Brahms e Prokof’ev nella sua formazione musicale, e nella sua carriera?

Prokof’ev rappresenta il mio debutto, mentre Brahms è qualcosa di già proposto nei miei anni bolognesi. Il mio primo Brahms risale a tanti anni fa e Lugano ha rappresentato uno stimolo a studiare nuovamente la sua Prima sinfonia, e a reinterpretarla. In nove anni, d’altra parte, e cioè il tempo trascorso tra la mia prima esecuzione e quella che verrà, anche io sono cambiato tantissimo.

Entriamo nel merito del Lac?

Suoneremo due prime opere, un prima sinfonia per quel che riguarda Brahms e un primo concerto per violino di Prokof’ev. Voglio comunicare intanto la gioia di proporre in questo particolare periodo storico la musica russa, in nome del fatto che l’arte non ha bandiere e le diverse culture sono un arricchimento per tutti e non un ostacolo. Parto da Prokof’ev, e da questo concerto assai criticato per l’essere troppo legato al classico, mentre è invece a suo modo sublime per sonorità e per la concezione molto moderna, molto poco canonica per l’aver posto il secondo movimento, lo Scherzo, al centro degli altri due. Nel concerto per violino di Prokof’ev c’è tutto, a partire da ciò che si richiede a un violino solista; ma si passa anche da momenti onirici, fantastici, sognanti – come l’inizio e la fine – al selvaggio, al caricaturale, al grottesco. C’è, insomma, tutta l’anima russa.

Per quel che riguarda Brahms, il capolavoro è noto. La mia scelta è tesa a mettere in evidenza il fatto che non è il Brahms barbuto l’autore di questa sinfonia, nonostante la gestazione sia stata lunga, bensì un Brahms ragazzo, senza barba, che si pone interrogativi non attraverso la saggia maturità, bensì attraverso l’ingenuità, la freschezza, gl’impeti della giovane età. Anche qui unirò il secondo al terzo movimento, le due parti più tenere al centro, insieme a quelle due montagne che sono il primo e il quarto tempo.

Un Brahms più ‘coetaneo’, vista la relativamente giovane età del direttore d’orchestra...

Sì, nel senso che non cambia il contenuto, ma il modo di approcciarsi alle domande esistenziali. Pensiamo all’inizio, all’incessante impulso ritmico del timpano, al continuo cromatismo, al continuo evitare le cadenze, al voler posporre la risoluzione che rende l’incipit un enorme interrogativo.

Lei incarna una nuova figura di direttore d’orchestra, in abiti meno seriosi, ritratto in una quotidianità meno seriosa. L’immagine è cambiata definitivamente?

Penso sempre che l’autorità e l’autorevolezza siano altro dall’essere seriosi. Il direttore d’orchestra-dittatore, urlante, è oggi completamente fuori dai tempi, anche perché il livello delle orchestre non ti consentirebbe mai un comportamento del genere. Io lavoro per la creazione di una democrazia nel fare musica insieme, mi piace dialogare, in funzione dello scambio d’idee. Non parlo troppo mentre dirigo se non quando serve, per dare una spiegazione, suggerire un’immagine. Mi piace piuttosto parlare con il corpo visto che le cose dobbiamo farle e non dirle, perché si tratta di un concerto. E in fase di ‘concertazione’, perseguo quella giusta via di mezzo che porta al coinvolgimento, ma senza il frustino. Noi direttori d’orchestra domiamo uno strumento che va, dobbiamo solo capire quanto e come serviamo. Anche tecnicamente, non mi piace castrare la sensibilità del solista o dover per forza imporre col braccio un impulso ritmico. È anche una responsabilizzazione nei confronti dell’orchestra. È accompagnare cantando, perché inevitabilmente, quando ci si ascolta, cambia il suono.

La sua giovane età, confrontata a quella di orchestrali decisamente più ‘agée’, le ha mai creato deficit di autorevolezza?

Ho sempre avuto ottimi rapporti con le orchestre, perché penso che abbiano individuato in me un professionista serio. L’autorevolezza viene dal rispetto, un’orchestra capisce se un direttore arriva preparato o no, se ha studiato sui dischi o ha una propria idea. Per quel che mi riguarda, non studio sui dischi, ho idee mie in cui credo, sapendo che non saranno mai definitive; belle o brutte che siano, le idee sono ponti attraverso cui dobbiamo passare. Credere in un’idea crea il rapporto con un’orchestra, composta da cinquanta, sessanta, settanta persone con una propria testa, una propria tradizione, un proprio gusto. Tutti questi professionisti li si convince con la bontà di un’idea, che sta alla base dello studio.

Torno al ‘nuovo’ direttore d’orchestra: l’aggiornamento della sua figura le permette di dichiarare senza pudore il suo amore per il pop, per il rock e quello che le pare…

Non ho mai fatto una classifica della musica in base ai generi. Penso che esista musica bella e musica brutta. Mi commuovo ascoltando Mozart e faccio altrettanto ascoltando gli Oasis, i Queen o il jazz. Anche perché l’Ottetto di Stravinskij, il suo ultimo movimento, apre già le porte al jazz; l’ultima sonata di Beethoven è già ragtime, l’aria di Bartolo nel Barbiere di Siviglia è una forma di rap ante litteram. E non dimentichiamo che i lieder di Schubert, quelli di Mahler, sono le canzoni pop dei secoli successivi.

Dopo la sua esperienza a Bologna, il Teatro dell’Opera di Roma l’ha voluta quale direttore principale: quale visione porta nella Capitale?

Ho aperto a un repertorio internazionale. Inaugureremo con Dialogues des Carmélites, assocerò ogni opera del trittico di Puccini con un capolavoro del Novecento. La quarta inaugurazione, quella della stagione 25-26, sarà il Lohengrin di Wagner. È un percorso che vuole essere evoluzione e sviluppo dei miei dodici anni bolognesi. Per Roma desidero che il teatro sia specchio della nostra realtà. I titoli scelti sono portatori di tematiche scottanti: fanatismo, violenza, incomunicabilità tra persone, fanatismo politico e religioso, gelosia e tradimenti. Perché è vero che l’arte e la musica devono essere anche una medicina per i nostri mali – perché una vita senza musica e senz’arte, io dico, è una vita senza sogni – ma allo stesso tempo l’arte non deve limitarsi a farci evadere dalla realtà. Al contrario, deve farcela conoscere, anche brutalmente, perché brutale è la nostra realtà, e l’arte può darci il coraggio di affrontarla.