Al Teatro di Locarno e al Cinema Teatro di Chiasso il ‘duello’ tra Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon
Probabilmente i nomi di Ricardo Klement e Otto Pape non dicono nulla ai nostri lettori. Li aveva scodellati il vicario altoatesino Alois Pompanin (col benestare del suo vescovo e di figure importanti della Curia vaticana, nonché del viatico di Washington) per dare una nuova identità a due personaggi viceversa sinistramente famosi: si trattava in realtà di Adolf Eichmann ed Erich Priebke, due dei molti criminali di guerra che sfuggirono al Processo di Norimberga grazie alla cosiddetta Ratline. Con loro, altri "ratti" importanti fuggirono in Sudamerica: Joseph Mengele e tra gli altri Klaus Barbie. Rintracciato dal Mossad israeliano in Argentina nel 1960, Eichmann venne rapito, portato a Gerusalemme e impiccato due anni dopo. Al suo processo, inviata dal settimanale New Yorker, assistette anche la politologa e filosofa Hannah Arendt, ebrea tedesca che lasciò la Germania già nel 1933, all’apparire del baffetto austriaco. Da quelle cronache nacque il suo saggio certo più famoso: ‘La banalità del male’ (titolo originale ‘A Report on the Banality of Evil’).
A distanza di mezzo secolo, l’attivissimo Stefano Massini è andato a rileggere sia le carte del processo sia le cronache della Arendt per scrivere a sua volta ‘Eichmann, dove inizia la notte’. Il libro è disponibile nelle nostre biblioteche, mentre con lo stesso titolo è approdato al Teatro di Locarno – con stasera ancora una rappresentazione e poi al Cinema Teatro di Chiasso domani, giovedì 24 marzo – l’atto unico col quale continua il felice rapporto tra il drammaturgo toscano e l’attrice Ottavia Piccolo, iniziato 15 anni or sono col memorandum dedicato alla giornalista Anna Politkovskaja e proseguito con ‘Sette minuti’, cronaca di una lotta sindacale in Francia.
Stavolta Massini immagina un dialogo (in realtà mai avvenuto) tra la Arendt ed Eichmann e, tanto per significare la distanza abissale che li separa, la Piccolo ci appare all’estrema destra del palcoscenico, accanto all’appendiabiti con cappotto e pigiama a righe con la stella gialla; a tutta mancina ecco Eichmann (Paolo Pierobon), che viceversa ha sistemato le sue divise con la svastica. Lei vorrebbe sapere, appunto, dove comincia la notte, cioè il Male; e lui appare stupito da questa insistita domanda: "Incontro il mio amico Kaltenbrunner (impiccato a Norimberga, ndr) che mi fa: ‘Perché non entri nelle SS?’ e io ho semplicemente pensato… "perché no?". Come disse al processo, Eichmann voleva gli stivali lucidi e l’uniforme, voleva far carriera per poter finalmente permettere a suo padre di visitare Berlino, viaggio che le condizioni economiche della famiglia non gli avevano mai permesso. Il giovane Eichmann invece nella capitale fa presto carriera ("Senza mai aver letto il Mein Kampf", sottolinea orgoglioso!): ha un’amante e una zia – acquisita – ebree, sa parlare yiddish e dunque sembra l’uomo ideale per risolvere "il problema ebraico". Organizza con teutonica precisione la deportazione di milioni di ebrei, ai quali aggiunge – bona pesa – migliaia di rom e di omosessuali. Ricorda però d’aver salvato circa 300mila ebrei, permettendo loro di lasciare Vienna e Berlino, quando dopo la notte dei cristalli (9 novembre 1938) era ormai chiaro il destino che li attendeva, con le industrie Krupp e Siemens ansiose di procacciarsi migliaia di operai/schiavi. Sì, ma poi si arriva ad Auschwitz, incalza la Piccolo. "Ma che importanza ha? Non l’avrei fatto io, l’avrebbe fatto qualcun altro. L’unico onore è non tradire mai, come mi ricordava sempre Himmler". Eppoi, aggiunge con un cinismo agghiacciante: "Guardi che per gli ebrei abbiamo inventato le camere a gas, sicché morivano in meno di dieci minuti". Non riconoscere le proprie responsabilità, negarle ostinatamente e centrifugare tutto quanto accaduto con un semplice "è andata cosi`": questa è la banalità del male che la Arendt scopre in un uomo superficiale, spinto da un’ambizione abnorme, che decide della vita di milioni di persone innocenti pur di avere gli stivaloni lucidati.
Sul nostro personalissimo taccuino, il duello di bravura tra Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon lo vince quest’ultimo, capace di passare dalla baldanza alla disperazione ("Tanto il verdetto l’avete già scritto") tenendo in sottofondo un disincanto a volte infantile quanto difficile da reggere. Più monocorde la Piccolo, cui è mancato l’acuto, quel crescendo drammatico del quale è ben capace e che ci saremmo aspettati nel corso della narrazione.