Un simpatico documentario sui luoghi comuni nei film americani e non solo. Non tutti innocui
Nella sterminata offerta di Netflix, che in questo periodo dell’anno si compone in buona parte da commedie natalizie sostanzialmente intercambiabili, troviamo un curioso documentario che spiega perché quelle commedie si assomigliano così tanto. ‘Attack of the Hollywood Clichés!’, diretto da Sean Doherty, Ricky Kelehar e Alice Mathias con la partecipazione tra gli altri di Robert Englund, Andrew Garfield e Andie MacDowell, è un viaggio attraverso i luoghi comuni cinematografici, quelle situazioni, scene, battute che rendono la visione di un film (piacevolmente, si spera) prevedibile, un rassicurante repertorio dal quale attingere più o meno consapevolmente. I cliché fanno parte del linguaggio cinematografico ed è difficile, per un regista o uno sceneggiatore, resistervi: qualche critico sbufferà e darà mezza stellina in meno, ma il pubblico quella scena se l’aspetta e forse rimarrebbe più contrariato se non ci fosse. Lo spiega bene nel documentario l’attrice Florence Pugh che sul set di ‘Piccole donne’ ha provato a dire alla regista Greta Gerwig di non fare la classica scena del bacio appassionato sotto la pioggia, ottenendo come risposta un secco “la voglio, sono cresciuta guardandola e la voglio fare”.
Alla base di questo lavoro sui luoghi comuni del cinema hollywoodiano – ma il discorso non vale solo per Hollywood – c’è un profondo amore e rispetto per i film. Eppure, a fianco di cliché leggeri e innocui il documentario affronta, sempre con ritmo e leggerezza, anche luoghi comuni più delicati. Perché certo non ci sono particolari problemi con la busta della spesa di cartone – incredibile in quanti film venga utilizzata per dare l’idea del personaggio impegnato in attività “comuni” – o con il Wilhelm Scream, l’urlo diventato effetto sonoro con cui muoiono centinaia di comparse e usato, perlopiù come omaggio a un certo modo di fare cinema, anche da Tarantino, oppure ancora con il protagonista che manifesta la propria rabbia buttando per terra quel che si trova sulla scrivania e che per la sorpresa sputa quel che sta bevendo, o il personaggio che da lontano osserva un funerale o i “falsi spaventi” degli horror. Ma diverso il discorso quando i cattivi hanno spesso cicatrici o altre malformazioni: la corruzione del corpo simboleggia quella dello spirito, un’idea non solo cinematografica, ma cosa significa per chi ha davvero una qualche deformità sapere di essere, nell’immaginario cinematografico, una persona malvagia? Oppure, per tornare alle storie d’amore: il primo incontro è sempre qualcosa di eccezionale e sorprendente, non ci si può semplicemente conoscere in un bar ma si deve almeno versare il proprio bicchiere addosso alla propria anima gemella. Che immancabilmente avrà già una relazione perché se fosse tutto semplice il film sarebbe noioso: ma di fronte a questi ostacoli gli uomini reagiscono con insistenza che spesso diventa vero e proprio stalking. Mentre curiosamente quando è una donna a diventare insistente possiamo esser certi che sarà la cattiva del film… Senza dimenticare l’effetto Puffetta che vediamo soprattutto nei film d’azione, con un gruppo tutto maschile tranne un’unica donna che dovrebbe rappresentare la diversità (e spesso ricorda bonariamente agli uomini quanto siano immaturi). Donna che – altro cliché – quando scappa da un qualche pericolo, sia esso un dinosauro o un serial killer, lo farà indossando dei tacchi.
Abbiamo poi il poliziotto ribelle, quello per cui le regole non valgono e che a un certo punto dovrà consegnare “arma e distintivo” – qui il documentario propone una suggestiva sequenza di estratti che attraversano quasi integralmente la storia del cinema – ma che alla fine sconfiggerà i cattivi: un cliché difficile da digerire, quando le cronache riportano notizie di agenti violenti. Interessanti due luoghi comuni speculari: il ‘White Savior’, il salvatore bianco che risolve i problemi delle minoranze oppresse, e il ‘Magical Negro’ (termine che si deve a Spike Lee) che ripropone sotto altra forma i miti del buon selvaggio e dello schiavo felice.
‘Attack of the Hollywood Clichés!’ è riuscito e interessante omaggio al cinema, nel bene e nel male. E un invito a una visione più attenta e consapevole.
Il problema delle rappresentazioni stereotipate non riguarda ovviamente solo i film di Hollywood e per quanto ci si possa aspettare una maggiore attenzione da parte dell’industria cinematografica – tanto più che molti dei film citati nel documentario sono recenti –, è indubbio che buona parte di questi cliché arriva dalla società.
Secondo vari studi gli stereotipi di genere vengono acquisiti molto presto e già verso i due anni bambine e bambini hanno acquisito convinzioni come “i maschi sono bravi in matematica”. Molly Lewis della Carnegie Mellon University ha condotto con alcuni colleghi uno studio adesso pubblicato sulla rivista ‘Psychological Science’ che rintraccia nella letteratura per l’infanzia l’origine di molti di questi pregiudizi di genere.
Invece di analizzare il contenuto, come fatto in precedenti ricerche, Lewis e il suo team hanno chiesto a un gruppo di adulti di valutare quanto le parole contenute in 247 libri per l’infanzia fossero associate alla mascolinità e alla femminilità, confrontando poi i risultati con analisi automatica del testo. “In alcuni casi, gli stereotipi nei libri per l’infanzia erano più forti di quelli nei libri destinati agli adulti” ha osservato Lewis. Una buona notizia: nei libri più recenti questi pregiudizi erano meno marcati.