Intervista al regista romando Robin Harsch, autore di un documentario su tre giovani persone trans. Anteprima al Lux con una delle protagoniste
Che cosa significa non riconoscersi nel genere assegnato alla nascita, non riconoscersi nel ruolo che la società si attende, non riconoscersi nel proprio corpo? Cosa significa sentirsi una ragazza in un corpo maschile, ragazzo in un corpo femminile? Difficile, per chi non ha vissuto questa esperienza, rispondere a questa domanda e infatti il regista romando Robin Harsch, con il suo ‘Sous la peau’, fa un’altra cosa: ci fa incontrare Effie, Söan e Logan, tre giovani che stanno vivendo la transizione. Li vediamo mentre affrontano problemi e incombenze varie, dal cambio di nome sui documenti all’incontro con i docenti di scuola, dalle iniezioni di testosterone al rapporto con i genitori.
Il documentario di Harsch è parziale: non approfondisce la disforia di genere, non entra nei dettagli della transizione, non illustra tutte le lettere della sigla Lgbtqia+. Il suo è un lavoro che si situa prima di tutto questo, si situa in quell’importante momento di incontro con l’altro. Incontro che, per l’anteprima di giovedì, si arricchisce della presenza di una delle protagoniste, Effie. La proiezione è organizzata in collaborazione con Amnesty International Ticino, Imbarco Immediato e l’Associazione Percorso Genitori e si terrà il 21 ottobre alle 20.30 al rinnovato Lux art house di Massagno.
Robin Harsch, come è arrivato a realizzare questo documentario? All’inizio ammette che prima di iniziare il lavoro la sua era una conoscenza solo ‘teorica’.
In effetti devo ammettere che non è un soggetto che avrei trattato in un documentario, perché non sapevo molto: non che avessi dei problemi con le persone trans, ne conoscevo qualcuna ma non era un tema che mi interessasse in modo particolare per farci un film. Poi una mia cara amica che lavorava con Dialogai, l’associazione a Ginevra per le persone Lgbt, nel 2015 mi ha detto che stavano per aprire ‘Le refuge’, un luogo per i giovani che non possono stare a casa perché hanno un orientamento sessuale o un’identità di genere differenti.
Quello che mi ha interessato in modo particolare è stata la giovane età: adolescenti, giovani adulti che non erano accettati da amici e familiari, che dovevano andarsene da casa. È stato questo che mi ha spinto a fare il documentario: che in Svizzera nel 2015 fosse necessario aprire un luogo del genere per accogliere questi giovani.
Quello che è accaduto è che nessuna persona gay, lesbica o bisessuale ha voluto incontrarmi o farsi filmare, per loro era comprensibilmente un problema. Mentre le persone trans hanno voluto incontrarmi e mi hanno aperto le porte del gruppo di parola trans.
Comprensibile che alcuni non si siano voluti esporre: se hanno avuto bisogno di un ‘refuge’, è appunto per trovare riparo, aprirsi, addirittura davanti a una cinepresa, non deve essere facile.
Sì e il fatto che le cinque persone trans che ho incontrato volessero tutte raccontarsi mi ha convinto: all’inizio pensavo di fare un film sul ‘Refuge’, su tutta la comunità Lgbt, ma ho capito che dovevo farlo sulle persone trans perché la loro è una realtà particolare, diversa da quella di lesbiche e gay.
Ho incontrato dei giovani adulti, in alcuni casi degli adolescenti, che si sentivano completamente persi e che finalmente avevano un posto dove parlare liberamente, dove potevano essere chiamati con il nome con cui volevano essere chiamati. Penso che abbiano accettato di partecipare al film perché occorre normalizzare la situazione, occorre che le persone capiscano che è qualcosa che riguarda anche la Svizzera, non solo Paesi lontani. È stato difficile per loro, ma è stato un modo per dire “esistiamo anche noi”.
Di solito nei documentari il regista spiega agli spettatori qualcosa che conosce bene: in questo caso il percorso di scoperta riguarda anche lei, con le persone trans che pazientemente spiegano cosa è un ‘binder’ (canotte contenitive per nascondere il seno) o cosa significa ‘essere sotto t’ (assumere testosterone).
Sì: ho iniziato a leggere dei libri ma, forse in maniera un po’ strana, ho voluto scoprire il tema parlando con questi giovani che hanno veramente tanto da dire. Non volevo iniziare con delle conoscenze che potessero vincolarmi, ma lasciarmi guidare da loro e anche mettermi nei panni dello spettatore che come me non sa molto.
Non voglio insegnare nulla, ma conoscere e far conoscere queste persone, ascoltare quello che hanno da dire. All’inizio avevo un po’ paura di dire qualche parola sbagliata, di usare il pronome errato perché al ‘refuge’ mi avevano detto di fare attenzione a questo e a quello ma alla fine mi son detto che dovevo comportarmi in maniera naturale e spontanea, superare la paura di dire la cosa sbagliata.
Nel documentario viene dato spazio anche ai genitori.
Sì, ho pensato ai genitori fin dall’inizio, perché nei film sulle persone trans che avevo visto raramente si dà la parola ai genitori. Avevo da poco avuto un secondo figlio e mi chiedevo che cosa sarebbe accaduto se mio figlio avesse voluto diventare una femmina… ho parlato una notte intera con il mio migliore amico, anche lui padre di un bambino, ed è stato lì che ho capito l’importanza di dare la parola ai genitori. È stato molto facile con le madri: molte mamme seguono i figli nel loro percorso e decidono di parlare in primo luogo per aiutare le altre mamme. Di padri, invece, ce ne sono pochi, chissà perché…
Nel film incontriamo comunque il padre di Söan.
Avevo un po’ paura di incontrarlo, perché sapevo da Söan che era stato molto duro… penso che alla fine abbia fatto bene anche a lui, incontrarmi, poter parlare con un altro uomo. Ma è stato l’unico padre che ho incontrato, gli altri non si sono fatti vedere.
Nessuna idea sul perché di questa latitanza?
Non so. È ancora come con le vecchie generazioni, con una mentalità un po’ patriarcale. Per le madri è forse diverso: come dice la mamma di Söan, quando hai ‘ton enfant’ è ‘ton enfant’ (parola invariata in francese, ndr), non pensi se è il tuo bambino o la tua bambina. Se dovesse capitare a me penso, spero di essere come una madre, di restare vicino, di seguirlo nel suo percorso. E immagino che dei padri così ci siano, anche se non ne ho incontrati.
Il film arriva adesso nella Svizzera italiana, ma è stato girato quattro anni fa.
Ho filmato nel 2017 e nel 2018, un po’ anche nel 2019. Il film è uscito in Svizzera romanda due giorni prima della chiusura dei cinema, poi la riapertura, il secondo confinamento… è stato complicato ma siamo riusciti ad accompagnarlo in sala, con Effie, Söan e Logan. Ma devo precisare che Söan è molto a disagio a guardare il film perché nelle prime scene è ancora una femmina e per lui è troppo duro rivedersi come era quando non si accettava. Quindi quando mi accompagna resta fuori dalla sala ed entra solo dopo la prima ora, quando inizia a essere quello che realmente è.
È ancora in contatto con loro?
Sì: non ci sentiamo tutti i giorni ma siamo in contatto, sono ad esempio il garante dell’appartamento di Effie e presto il mio appartamento in Vallese a Logan perché ci possa andare con la sua ragazza. Aver girato insieme per due anni, parlando di cose intime e personali, ha creato dei legami.