Per l’occasione, Warner Bros ha autorizzato un ritorno sul grande schermo come si fa solo per i titoli che segnano la storia
In questi giorni si celebra ovunque il 50esimo anniversario del più scandaloso, controverso, affascinante film di Stanley Kubrick, “Arancia meccanica” e per l’occasione la Warner Bros ne ha autorizzato un ritorno sul grande schermo come si fa solo per i titoli che segnano la storia, e non solo quella del cinema.
In verità la “prima” a New York del nono film di Kubrick avvenne in una gelida serata del 19 dicembre 1971 e non diede a regista e produttori l’immediata soddisfazione sperata: troppo brutale il pugno nello stomaco inferto agli spettatori, troppo esplicite quelle immagini cariche di un sottotesto inconscio che ancora oggi appare perturbante.
Ci volle lo scandalo, l’opinione pubblica divisa in uno scontro aperto sulla libertà dell’arte, per portare al cinema la folla delle grandi occasioni facendo registrare un incasso record (114 milioni di dollari nel mondo) per un’opera a basso costo, poco più di 2 milioni. Una volta ancora l’autore vinceva la sua scommessa con i tycoon di Warner cui aveva promesso che mai un suo lavoro sarebbe stato toccato dall’insuccesso.
A guadagnare fu anche Kubrick visto che per contratto ricevette il 40% degli incassi, oltre ad aver strappato il controllo totale sulla produzione. La gloria arrivò con la Mostra di Venezia del 1972 e poi con quattro nomination all’Oscar. Strano a dirsi però, nella bacheca di “Arancia meccanica” figurano infinite candidature ma nessun premio maggiore, eccezion fatta per un Nastro d’argento nel 1973.
Se molti critici collocano il film nella “trilogia futuribile” dopo “Stranamore” e “2001”, oggi è più giusto dire che si tratta del primo capolavoro distopico del cinema moderno. Infatti le stravaganti avventure di Alex Delarge (Malcolm McDowell) e dei suoi Drughi si collocano in una Londra dell’immediato futuro, in un gusto tra il pop e il postmoderno ricercato con ossessivi richiami all’arte degli anni 60 e 70 e ricorrenti rimandi a situazioni dell’epoca: la liberazione sessuale, l’esplosione della rabbia giovanile, la circolazione delle prime droghe sintetiche, le guerre per bande.
Come scrive il critico Morando Morandini, siamo in presenza di “una favola filosofica che illustra con geniale lucidità il suo discorso sulla violenza e sul rapporto tra istinto e società”. Ed è proprio il tono della favola nera quello cercato da Kubrick in un costante contrappunto tra estetica dell’ultraviolenza (termine coniato per l’occasione) e sdrammatizzazione grottesca della stessa attraverso il contrasto con la colonna sonora.
Tutto nel film si gioca tra perfezione e purezza da un lato (la musica classica adorata dal protagonista, il bianco latte delle uniformi della banda di Alex, l’aspirazione alla purificazione interiore) e degrado degli stessi elementi (la rielaborazione elettronica della musica classica operata da Wendy Carlos, il latte adulterato con mescalina del pub prediletto di Alex). Sul fronte filosofico, fin dal romanzo ispiratore (“A Clockwork Orange” di Anthony Burgess del 1962), Kubrick oppone la strumentalizzazione del potere con la cancellazione del libero arbitrio a cui si sottomette Alex. Ma la scelta del regista non è quella di giudicare, bensì di porre domande e scoprire il lato oscuro che abita ogni individuo.
E il messaggio più sconvolgente e rivoluzionario che ancora disturba in “Arancia meccanica” sta proprio nella conclusione che vede (almeno nella versione originale) il protagonista diventare capo di una polizia cui è lecito esercitare violenza e crudeltà nel nome della legge. Facile capire perché l’apologo di Burgess e Kubrick fece scandalo, generò un drastico divieto ai minori di 18 anni e trasformò la pellicola in un autentico “tabù” per le televisioni.
Non si tratta soltanto di un film, ma di un modello che ha fatto presa nella società generando molte citazioni e richiami: nella musica (con i gruppi punk e metal in prima linea fino alla recente citazione di Achille Lauro), nel fumetto (diversi episodi dei Simpson e prima ancora una striscia di Nick Carter), nel cinema (L’odore della notte di Claudio Caligari, Funny Games di Michael Haneke, Never Gonna Stop Me di Rob Zombie). E più ancora nella società giovanile con le efferate gesta della romana “Banda dell’Arancia meccanica” e il tifo ultras da stadio dei “Drughi Bianconeri”.
Tutto in Arancia meccanica è diventato iconico nel tempo: il titolo originale di Burgess che sintetizza la perfezione esteriore del frutto bacato (l’arancia) e la sua segreta natura di congegno a orologeria pronto a esplodere; i costumi di Milena Canonero, gli arredi e un’estetica “optical” e iperrealista dai chiari riferimenti sessuali. E per finire un protagonista, Malcolm McDowell, scoperto dal regista dopo la visione di un film generazionale come “IF” di Lindsay Anderson e trasformato in un mostro dal sorriso angelico cui McDowell regalò un’immedesimazione totale fino al punto di rompersi una costola e distruggersi le cornee durante le riprese.
50 anni dopo “Arancia meccanica” invecchia come il buon vino d’annata, proietta la sua scomoda morale fin dentro l’attualità, sintetizza una cultura anglosassone che ha origine nelle profezie di Stevenson, Orwell (“1984”) e Bradbury (“Fahrenheit 451”), ma soprattutto ci mostra la deriva di un mondo contemporaneo sempre più propenso ad assuefarsi all’estetica suadente della violenza. Nell’additarne il pericolo strisciante Kubrick rimane un autentico rivoluzionario del Ventesimo secolo.