L'intervista

Nove ‘Segnali di fumo’ di Saverio Grandi

Tra gli autori più prolifici degli ultimi decenni, ha scritto per Vasco, gli Stadio e mille altri. Ora è tempo per un nuovo album solista, autobiografico

Saverio Grandi
2 novembre 2021
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Si va dall’amore universalmente inteso in ‘L’amore crede l’amore può’ all’importanza della leggerezza in ‘Senza peso’; da ‘Mi piace’, una specie di dieci cose per le quali vale la pena vivere, di alleniana memoria, agli ‘Eroi silenziosi’, quelli “con la vita troppo stretta” (che ci salvano le chiappe senza per forza scriverlo in Facebook); si va dalla velata denuncia di ciò che sta tra il senso di possesso e il femminicidio in ‘Come è giusto che sia’ (“E tu eri lì in mezzo alla strada / Come una lepre accecata dai fari / Avrei potuto accelerare / Ma ho deciso di frenare”) a una cosa generazionale che parla di quelli che il 2 agosto del 1980 “hanno perso la verginità insieme nello stesso momento”, quelli che “ascoltavamo la musica e ci credevamo davvero in un mondo migliore e più giusto”; e si va da ‘A mio padre’, le cose non dette e gli abbracci mai dati che ora non si possono più dire e dare, fino a ‘Segnali di fumo’, ultima traccia che dà il titolo all’album solista di Saverio Grandi, paroliere, compositore e cantautore, tra gli autori più influenti della discografia italiana degli ultimi decenni, uno che ha scritto per gli Stadio (da ‘Generazione di fenomeni’ a ‘Un giorno mi dirai’, la vittoria a Sanremo 2016), per Vasco (da ‘Ti prendo e ti porto via’ fino a ‘Una canzone d’amore buttata via’), per Raf, Ramazzotti, Morandi, Pausini e un’abbondante manciata di altri ancora.

‘Segnali di fumo’ (PMS Studio) è «la ricerca di una comunicazione non verbale, non gridata – ci spiega Grandi – costruita su quei codici che solo chi si parla può conoscere, così come comunicavano i nativi quando non volevano farsi capire dai bianchi». Trasferito a oggi, dietro album e canzone c’è «questa realtà urlata che stiamo vivendo, piena di tanta rabbia. E così m’è venuto naturale andare in quella che De André chiamava “direzione ostinata e contraria”, e puntualizzare tutto questo in un disco di canzoni che possono pure divertire o ballare, ma concepite come si faceva una volta, e cioè comprensive dell’eventualità che possano anche far riflettere…».

La canzone, in fondo, dei segnali di fumo ha la sintesi e l’immediatezza…

Dovrebbe essere così, anche se oggi tanta musica italiana s’è spostata più verso l’intrattenimento che verso il messaggio. È per questo che ho cercato di fare qualcosa di diverso, di ambizioso, un po’ perché c’è chi fa l’intrattenimento meglio di me, un po’ avendo io già scritto per altri artisti tanti brani nei quali si parlava d’amore e rapporti di coppia.

In ‘L’amore crede l’amore può’, primo singolo, affidi le parole a un tuo omologo, Pacifico, cosa che pare un controsenso e che invece un controsenso non è…

Volevo parlare dell’amore con la A maiuscola, come detto prima, e non avevo un brano che avesse questo tipo di caratteristiche. Avevo scritto con lui questo pezzo, musica mia e testo suo, e mi sembrava perfetto per esprimere un altro tipo d’amore, quello al quale nei momenti di difficoltà magari non credi più, ma lui ci crede per te, detto in maniera spiccia. Pacifico ha reso il concetto come lui sa fare.

Nei giorni del Sanremo in streaming, Pacifico ci disse quali requisiti deve avere un buon autore: ti giro la domanda.

Sensibilità, talento e un po’ di mestiere, perché si tratta anche di saper assemblare note e parole. E curiosità, desiderio di ascoltare tanta musica, e da piccolo ne ho ascoltata tanta, classica, jazz, rock e pop. Ecco, credo che un autore debba essere curioso.

E magari un po’ psicologo?

Visto che devi relazionarti con quanto l’artista vuole dire, certamente. Perché quando te le canti tu, dici quel che vuoi tu. Ma è giusto, quando si collabora, avere sufficiente autostima per poter scrivere di fianco a nomi blasonati e al tempo stesso la grande umiltà di saperli ascoltare, trovando la mediazione tra quella che è la tua idea della canzone e l’idea dell’artista, che alla fine deve avere l’ultima parola sempre, perché l’artista è lui che ci mette la voce, la faccia, la storia e tutto il resto.

I Police sentirono fischiettare ‘Roxanne’ da un lavavetri, gli a-ha ascoltarono ‘Take On Me’ alla radio in una strada di Venice Beach: quando hai capito che l’autore Saverio Grandi ce l’aveva fatta?

L’ho capito subito. Nel senso che a vent’anni volevo fare lo sceneggiatore o l’autore di canzoni, anche se i miei genitori, come spesso accade, non erano troppo contenti; al tempo c’erano ancora le audiocassette, ne mandai quattro o cinque a quelle che allora erano le multinazionali; due non risposero e tre dissero che non era quello che stavano cercando; avevo praticamente rinunciato quando un giorno in un bar di Bologna incontro Gaetano Curreri che aveva appena perso la collaborazione di Luca Carboni, che cominciava a fare il cantante; Gaetano mi chiede se mi va di scrivere e da un disco ne abbiamo fatti 20. L’ho capito lì che la cosa funzionava, perché nel giro di tre mesi avevo 6-7 brani con gli Stadio, uno con Raf e un altro in America Latina. Quando hai tre singoli nel giro di pochi di mesi ti viene da dire: “Beh, allora significa che sono capace”, significa che quelli che ti dicono bravo non sono più soltanto i tuoi amici, e che non è che sei bello perché te lo dice tua mamma…

“Il nonsenso oggi ha un senso / Ci ho fatto anche una canzone, ma è stata solo musica”, scrivi in ‘Senza peso’, citando ‘Un senso’, scritta per Vasco Rossi. Che tu fossi bravo, a un certo punto, l’ha capito anche lui: com’è la vostra collaborazione?

È come giocare a calcio con Messi: sai che se anche tu non farai benissimo, al goal o all’assist decisivo ci penserà lui, che scrive tutti i testi è già ti risolve il rischio di scrivere cose banali, da genio quale è. La stima reciproca, poi, ci ha fatto scrivere belle cose.

Lui scrisse ‘Siamo solo noi’, tu hai appena scritto ‘Siamo noi’ che è, anche qui, il ritratto di una generazione, la tua…

È l’unica canzone nostalgica del disco, perché la nostalgia mi fa paura e la evito come la peste bubbonica. Ho deciso di cantarla con Gianni Novi, il cantante di una band nella quale suonavo quando avevo vent’anni, e siccome questo disco è diverso dagli altri ho pensato a un featuring con un nome non di grido. È una canzone che fa l’esame sul passaggio del tempo a questa generazione, la mia, che per un momento ha avuto la possibilità di cambiare lo stato delle cose in meglio e non l’ha fatto, e mi assumo le mie responsabilità. Sono diventato maggiorenne all’inizio dei Novanta, avevamo evitato il ’68, nel ’77 eravamo troppo piccoli per prendere bombe in testa, ma poi abbiamo avuto la possibilità di costruire una società più a misura d’uomo e non lo abbiamo fatto, forse per narcisismo, perché ci credevamo fighissimi, e il mondo ha preso una piega sin troppo individualista. Si parlava tanto di ecologia, in quegli anni, e guarda un po’ com’è andata a finire: ci danno quarant’anni alla fine…

Chiudo con ‘Svegliami quando sarà finita’: posso chiederti com’è adesso che è finita o è ancora troppo presto?

‘Svegliami quando sarà finita’, per quanto io sia l’opposto di un depresso, nasce quando ci trovavamo sull’orlo del precipizio. Credo, mi auguro, che siamo verso la fine. Non ne sono così sicuro, ma voglio augurarmi che questi giorni ci abbiano insegnato qualcosa, e lo dico anche nel rispetto di chi scende in piazza, a patto che lo faccia in modo non violento.