Intervista al drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano, ospite mercoledì del Festival internazionale del teatro con ‘Divina Invencion o la celebracion del amor’
Le belle notizie vanno date. In questo periodo dove sembra difficilissimo anche andare a bersi un caffè con un’amica perché ci vuole il pass, il teatro vive! Al Fit quest’anno diverse sere con il tutto esaurito, persone che vanno a teatro anche senza biglietto con la speranza di trovarne uno in cassa, e tanta gente che si ferma anche dopo, felice di trovarsi a parlare di arte e non solo di virus.
Mercoledì sera il pubblico era per Sergio Blanco, drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano, che inaugurava la tournée europea della sua ‘Divina Invencion o la celebracion del amor’, ultima parte di una trilogia di conferenze autofinzionali.
Un monologo dedicato all’amore, che arriva dopo quello dedicato alla violenza e poi alla morte (visto quest’ultimo sempre sul palco del LAC la scorsa edizione del Festival).
Sul palcoscenico seduto al tavolo di una conferenza, Blanco ci accoglie davanti a un’immensa immagine di Francis Bacon. I quadri dell’artista faranno da sfondo a questa lunga dissertazione suddivisa in 30 capitoli nella quale l’artista cercherà, tra realtà e finzione, di sviscerare il tema amoroso. Impresa difficile, perché sull’amore è stato detto tutto o quasi, che il drammaturgo abborderà da con diversi linguaggi e da più punti di vista. È difficile parlare di uno spettacolo simile perché questi 30 ‘quadri’ veicolano emozioni e immagini tra le più disparate, dalla violenza al lirismo, dalla perdita alle scoperte, in una conferenza che nella sua staticità smuove lo spettatore. Come riesce Blanco a farci danzare con lui in questo viaggio tra ricordi, dubbi e certezze? Tra citazioni di battute celebri e intime confessioni? Con la musica, senza dubbio – le sue colonne sonore che vanno da Satie ai Rolling Stones sono sempre accuratissime, ma anche con il suo gioco attorale. Sì, perché Blanco è anche un bravissimo attore, che scandisce il suo discorso in maniera ineccepibile (complice anche la musicalità poetica e espressiva della sua lingua uruguaya) e che con le sue frasi che terminano sempre in levare e che sembra tener delicatamente sospese con un movimento delle braccia denso e teso, riesce a mantenerci costantemente sull’attenti e in attesa di quel che verrà.
Gli abbiamo chiesto di svelarci alcuni dei meccanismi che stanno dietro alla sua scrittura e soprattutto, a queste conferenze autofinzionali. Siamo partiti dal principio, come lui.
Sergio Blanco, perché iniziare la conferenza citando ‘Song of myself’ di Walt Withman?
Per me è molto importante iniziare spiegando che parlar di sé è una forma per parlare degli altri. Contrariamente a quanto si crede, l’autofinzione non è un meccanismo narcisistico di chiusura in sé stessi, ma il contrario: è un modo di aprirsi agli altri.
Come nasce l’idea di questa trilogia?
Nasce dal desiderio di riunire due discorsi antagonisti: quello accademico e quello artistico. Il primo è soggetto a massime chiare, precise, deve essere equilibrato, ordinato e misurato. L’altro invece è sproporzionato, disordinato e non deve essere preciso per forza. Ho voluto riunire questi due mondi (l’oggettivo e il soggettivo) nello stesso veicolo: il mio corpo. Il risultato è un formato dove intimo e privato si fondono in uno stesso testo.
Lei ha celebrato l’amore, e nel suo spettacolo ho notato che sono spesso le donne a cui dà la parola: ricercatrici, attrici, personaggi conosciuti nella storia della letteratura, perché?
Perché penso che sia ora di tacere e dare la parola alle donne. Abbiamo parlato molto, abbiamo monopolizzato molti luoghi di potere e, soprattutto, molti spazi discorsivi. Ecco perché ho deciso che in questa conferenza prendo la parola per citare essenzialmente le donne. Volevo evocare il genere femminile non solo come “oggetto” del desiderio ma anche come “soggetto” produttore di discorsi. Per questo nel testo ho evocato e convocato poetesse, pensatrici, scienziate, teologhe, antropologhe, scrittrici, musiciste. Sono sempre stato abitato dal femminismo, ma negli ultimi anni c’è stato un cambiamento radicale e la difesa della lotta femminista è diventata molto presente nella mia vita. Penso che sia ora di cominciare a smantellare tutta una serie di strutture che sono aberranti e alle quali dobbiamo porre fine una volta per tutte. E voglio farlo da questo punto: decostruire questo genere a cui appartengo.
Come riesce a costruire questa struttura narraturgica tra dati scientifici reali e storia personale? Dove e come si introduce la finzione in tutto questo?
È un vero e proprio lavoro di ingegneria dove alterno la parola soggettiva e la parola oggettiva. Si tratta di mescolare l’intimo e il pubblico. Quando parlo di me stesso, parto sempre da esperienze reali, ma a poco a poco le trasformo. La scrittura stessa - cioè il racconto della storia - introduce la finzione. Il processo stesso della scrittura trasforma la realtà in finzione. Anche se parto sempre dal mio “io reale“, l’io narrativo che emerge finirà sempre per essere un "io fittizio”. Mentre scrivo, faccio nascere un "io immaginario”. La scrittura della mia storia è un modo di reinventarla. Alla fine, l’io che emerge non sono io, ma finisce per essere un personaggio.