In Concorso convince ‘The Card Counter’, unico film non prodotto da Netflix proposto oggi in competizione. Sofferti i film di Sorrentino e Jane Campion
Lunga giornata di cinema sul Lido mentre sulla laguna in lontananza si vedono cariche navi in attesa di portare la loro merce alla fumante Marghera. In sala stampa scrivere è un delirio con schermi che ad alto volume trasmettono e ritrasmettono l’idiota conferenza stampa di un farneticante Benigni in veste, visto il premio ricevuto alla carriera, di professore che pontifica sul fare cinema. Inutili le proteste verso chi non capisce la differenza tra una conferenza stampa e una sala stampa, qui nulla conta se non il dio denaro, nella più bieca tragedia culturale italiana questa Mostra del cinema serva delle grandi piattaforme televisive. Non a caso finora i film presentati sono riferibili alla produzione Netflix, oggi in Concorso infatti con due film: ‘È stata la mano di Dio’ di Paolo Sorrentino e ‘The Power of the Dog’ di Jane Campion
Il terzo film in Concorso, l’unico non venduto alla potenza americana, ‘The Card Counter’ dell’indipendente Paul Schrader, è prodotto da Martin Scorsese. Si tratta di un film che conferma il percorso cinematografico di un autore che ha segnato la storia del cinema. Il protagonista, che impariamo a conoscere, è un isolato americano finito in carcere per le violenze perpetrate ai danni dei prigionieri del carcere di sicurezza di Abu Ghraib in Iraq. Immortalato in una delle fotografie che hanno fatto il giro del mondo, si ritrova uscito dal carcere a fare il giocatore professionista di poker, senza puntare a grosse vincite per non rischiare di essere riconosciuto. Succede che sia scoperto da un giovane, figlio di un ex commilitone del protagonista morto suicida: il ragazzo cerca il colpevole della distruzione fisica e morale del padre, il giocatore decide di prendersi cura di lui. Lo conduce con sé lungo le rotte del gioco professionistico del poker in Nord America, un giro da milioni di dollari, in cui il soldato scopre l’amore e il dovere di vivere in una società migliore, un compito che lo riporterà in carcere per non perdere la sua anima. Film capace sempre di tenere alta la tensione, ben interpretato da Oscar Isaac, con Tiffany Haddish nella parte della donna di cui si innamora e Tye Sheridan in quella del giovane in cerca di vendetta; a Willem Dafoe la parte del cattivo. Ci si specchia su Guantánamo e si ripensa alla tragedia irachena, negli Usa con questo e altri film si cerca di ricondurre vicende troppo simili alla guerra in Vietnam, e oggi troppo uguali a quanto succede in Afghanistan. Il settantacinquenne Paul Schrader lancia un grido d'accusa verso il manicheismo ideologico del suo Paese confezionando un film di alta tensione, ben recitato da tutti.
Non convince invece ‘È stata la mano di Dio’, superficiale e inutile film di Paolo Sorrentino, pseudoautore a caccia di autocelebrazioni tanto fastose quanto inutili; qui ci porta nella Napoli che accoglie Diego Armando Maradona come l’invocato eroe che la salverà dal degrado, non solo sportivo. Tutto si può dire, di Paolo Sorrentino, meno che sia capace di girare: qui usa tutto il suo mestiere cinematografico ma mai trova un elemento narrativo convincente. Protagonista del film è un giovane studente, Fabio noto come Fabietto (Filippo Scotti), impegnato a comprendere il valore di una serie di parenti davvero numerosi e a ripensare al suo futuro quando nonostante Maradona si ritrova orfano. Quello che manca al film è una capacità narrativa, il regista colora momenti di una tela che resta sbiadita. “La macchina da presa compie un passo indietro per far parlare la vita” ha detto il regista, ma non è vero perché il problema è proprio il lavoro fine a se stesso della macchina da presa.
Ultimo film in concorso è stato ‘The Power of the Dog’ di una Jane Campion che batte bandiera Usa e che abbandona i suoi personaggi nella difficile ricerca di un loro essere sullo schermo, e che non può e non sa dare loro un’indipendenza credibile. Siamo nel difficile campo di un film western, senza un'adeguata capacità narrativa da parte della regista neozelandese, più attenta al decoro che alla sostanza, nonostante questo lei sul catalogo del Festival testimonia: “Rimanere affascinata dallo straordinario romanzo di Thomas Savage è stata pura gioia, ma non avevo mai pensato di farne un film, visti i tanti personaggi maschili, e i temi profondamente maschili. Mi sono invece chiesta quale regista l'autore, con la sua mascolinità ambigua, avrebbe voluto, e a poco a poco ho avuto la sensazione che lui mi appoggiasse un braccio sulla spalla, dicendomi: ‘Una pazza che è arrivata ad amare questa storia? Sì, è perfetta’. Ho messo tutta me stessa nel grandioso racconto di Savage, ne sono stata conquistata. In Phil ho sentito l’amante, e la sua tremenda solitudine. Ho percepito l’importanza e la forza di ogni singolo protagonista, e il modo in cui ciascuno si rivela alla fine. Sono onorata di condividere questo film con veri spettatori, in un cinema reale”. Non ne siamo convinti, ma forse sul piccolo schermo si soffrirà meno.
Fuori Concorso è passato il docu biopic ‘Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song’ firmato a quattro mani da Daniel Geller e Dayna Goldfine; un film troppo lungo per una canzone pur così importante e per quel poeta che l’ha scritta attendendo anni prima di metterla in musica. Bisogna essere proprio innamorati del testo di Cohen, quel ritmato ‘Hallelujah’, per sopportare due ore di immagini e riflessioni spesso inutili. Come ha fatto Cohen bisogna avere il coraggio di tagliare e di regalare nuove emozioni.