In Concorso il convincente film dell’israeliano Nadav Lapid, Un Certain Regard ‘Onoda’ di Arthur Harari e fuori compezione due attesi documentari
Era quello che si aspettavano tutti: mentre il mercato langue – ma qualche coraggiosa festa è annunciata e la corsa agli inviti è sbocciata – per giornalisti e pubblico sono cominciate epiche file per entrare in proiezione. In certe sale per entrare passi anche tre scanner e altrettanti controlli alle borse, e questo allunga di molto i tempi: il secondo giorno in certe sale le proiezioni sono cominciate con un’ora di ritardo e finite a notte fonda, con tanti alla ricerca dell’ultimo autobus e i taxi introvabili. Ma il Festival di Cannes è troppo importante per la qualità dei film che presenta da far sopportare a tutti i disagi che comporta una pandemia.
In concorso abbiamo visto “Ha'berech” (titolo internazionale “Ahed's Knee” Il ginocchio di Ahed) un film dell’israeliano Nadav Lapid, un regista di sicuro talento già Orso d’Oro a Berlino 2019, una carriera iniziata al Festival di Locarno, premiato per il proprio lungometraggio d'esordio ‘Hašoṭer’ (2011). Il film è un viaggio nella creazione di un regista insicuro sul nuovo film che ha messo in cantiere, nello stesso momento è il racconto del suo tentativo di sedimentare il dolore per la madre che sta morendo di cancro. È anche, e questa è la sua ricchezza, la denuncia di uno stato, Israele, che semina odio, disperazione, corruzione e, non ultimo, la dimostrazione di un maschilismo alienato e alienante che spinge il protagonista a provocare il suicidio dell’unica persona che gli mostra simpatia sputandogli addosso la fragilità del suo essere donna. Film durissimo e non pacificante, film che snuda la bandiera israeliana che sventola il un territorio conquistato, ultimo medievale omaggio al potere di uomini contro gli umani. Nelle vesti del regista un grande attore, coreografo e regista teatrale come il pluripremiato Avshalom Pollak, che mette in evidenza un repertorio espressivo di non comune qualità, con lui un’attrice-danzatrice della sua compagnia, Nur Fibak, nei panni della dolce Yahalom, curatrice della biblioteca di un isolato agglomerato di case sparse nel deserto israeliano, dove proprio da lei il regista viene chiamato per presentare un suo film. C’è qualcosa di veramente particolare nella recitazione dei due, un decisivo marcare il terreno della recitazione. L’abbracciarlo il tenderlo l’abusarlo, come succede nella danza, ed è proprio una danza quella che si intreccia, fino al compimento del dramma, tra loro.
A inaugurare Un Certain Regard è stato l’applaudito “Onoda” del parigino Arthur Harari, un film dedicato al notissimo Hiroo Onoda (Kainan, 19 marzo 1922 – Tokyo, 16 gennaio 2014) il soldato giapponese che per trent’anni, dal 1944 al 1974, ignaro della fine della Seconda guerra mondiale, ha difeso in nome dell’Impero del Sol Levante la sperduta isola filippina di Lubang. Il regista mette in scena uno scandaloso ritratto di un uomo tradito dal proprio Paese, e insieme sbandiera un monito a chi pensa sempre che una guerra sia una questione di numeri e date e mai del tempo che le guerre rubano alla vita degli uomini. Hiroo Onoda (qui ben interpretato da giovane da Yūya Endō e maturo da un bravissimo Kanji Tsuda) non è un eroe, anzi: si rifiuta di morire schiantandosi in aereo come kamikaze, viene allora addestrato per la guerriglia nelle zone di guerra in cui è previsto l’arrivo delle truppe americane e filippine: il suo compito è ora resistere e non morire in attesa del ritorno della potenza giapponese. Per questo viene mandato sull’isola di Lubang il 26 dicembre 1944.Il suo compito, che deve restare segreto, è portare alla guerriglia tutta la postazione giapponese presente sull’isola, ma gli ufficiali hanno altre idee, vogliono sfidare il nemico a faccia alta e pagano con la morte la loro boria. Onoda raccoglie un gruppo dei superstiti, li porta tra le montagne dell’isola e preparare la resistenza. Molti lo lasceranno per fame e voglia di arrendersi, ma troveranno la morte confermando a Onoda che la strada da seguire è la sua. Dopo gli ultimi scontri con i soldati filippini, restano in quattro, l’isola viene abbandonata dai loro nemici e lui spiega la sua missione ai sopravvissuti; saranno una famiglia, in lotta con i pochi abitanti dell’isola. A parte il più giovane che riesce a fuggire dal gruppo e rocambolescamente a tornare a casa, Onoda vede morire gli altri compagni per mano dei popolani. Il film racconta di una pace che non c’è e di un uomo che mentre altri uomini vanno sulla Luna crede ancora che una guerra non sia finita. Ben girato e interpretato, il film ha meritato gli applausi.
Fuori competizione sono passati due attesi film documentari ‘The Velvet Underground’ di Todd Haynes e ‘Jane Par Charlotte’ (Jane By Charlotte) di Charlotte Gainsbourg. Haynes è un buon regista ed esperto documentarista, attento alla condizione omosessuale, in questo film dedicato ai Velvet celebra il gruppo della Factory di Warhol mettendo in evidenza il rapporto tra l’artista e il suo amato Lou Reed, mentre Charlotte Gainsbourg per la sua opera prima tenta di scavare il suo rapporto con la madre, la grande Jane Birkin. Haynes spiega che i Velvet Underground hanno creato un nuovo suono che ha cambiato il mondo della musica, cementando il loro posto come una delle band più venerate del rock 'n' roll. L’operazione che fa è molto interessante, più didattico che celebrativo il film ci presenta innanzitutto i componenti del gruppo: Lou Reed, John Cale , Sterling Morrison e Maureen Moe Tucker. Le biografie più complete per i primi due, a cui poi si aggiunge, con bella completezza da wikipedia inglese, la bio di Nico, storia dei Velvet più che quella con il contributo di Doug Yule che aiutò Reed a pulire e ingentilire i suoni di Cale, togliendo al gruppo il senso artistico regalandogli quello commerciale. E un film che analizza anche la dicotomia americana di quegli anni tra la dark New York e la solare e con i fiori in testa California hippy. E in questo è anche cattivo, Haynes, sottolineando come cacciato Cale il gruppo si trasferì mentalmente e musicalmente dalla costa atlantica alla costa pacifica. Non si dimentica anche di spiegare il passaggio da una comunità gay e lesbica che rischiava anni di carcere per incontrarsi a un serio cambiamento nella società. Ben confezionato, ricco di citazioni, il film convince anche chi non ama il gruppo.
Non convince invece il documentario che Charlotte Gainsbourg dedica alla madre, innanzitutto perché lo dedica prima a se stessa e ai suoi problemi per girare il film, alle scelte della musica, delle inquadrature… al punto che Jane Birkin fa da gentile soprammobile spostata dal Giappone a NewYork, da Parigi a Londra con immagini che parlano anche di una vacanza a Venezia con papà Serge Gainsbourg. Quello che manca al film è amore, qualunquistiche le immagini, l’unica che ha suscitato applausi e felici commenti è sta quella in cui si vede la Birkin oggi, anziana, prendere in braccio un cagnolino e baciarlo. Il commento generale è stato “che carino”. La signora Gainsbourg non è andata oltre, al pubblico con è interessato neppure che lei portasse sua figlia Alice dalla nonna. Sullo sfondo restano tutti, persone, come la sorella morta suicida, emozioni, gioie, dolori… davanti c’è solo la regista. Non ci basta.