laR+ L'intervista

Jack Savoretti, qualcosa è cambiato

Per sua figlia sarà sempre 'l'uomo che canta agli sconosciuti', come l'ha definito lei, ma intanto il papà sforna ‘Europiana’, disco bello e senza tempo

Jack Savoretti (foto: Chris Floyd)
25 giugno 2021
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Dimenticate quel misantropo di Jack Nicholson, Oscar 1988. Il titolo è un mero escamotage giornalistico per segnalare una svolta musicale – quella di un artista che si è regalato un pianoforte e ha cambiato (integrato) il suo modo di scrivere – e una svolta umana, che è dell’artista ma anche di tutti, se ci viene posta la domanda: “Cos’è cambiato nella tua vita?”. Il lockdown, a Jack Savoretti, ha portato in dote un album che è pura evasione (in tutti i sensi, sensoriale e fisica), viaggio (idem come prima) e movimento (altrettanto). Un album attuale ma senza tempo, che suona come la colonna sonora della nostra estate, solo che non si riesce a ricordare l’anno preciso. È la sensazione che arriva da ‘Europiana’, album e neologismo usciti dagli Abbey Road Studios due anni dopo il best seller ‘Singing To Strangers’, ascoltato dal vivo nel maggio del 2019 al Palacongressi.

Anticipato da ‘Who’s Hurting Who’, in mezzo a undici brani che per scegliere un altro singolo basta il bimbo bendato della lotteria, ‘Europiana’ è la savorettiana definizione di un suono, la canzone europea che incontra il ritmo dall’altra parte dell’oceano, dove il ritmo è, per esempio, il Nile Rodgers del primo singolo, o la chitarra di John Oates di Hall & Oates in ‘When You’re Lonely’, dentro un disco prodotto da un britannico, Cam Blackwood, arrangiato da un altro britannico, Phil Granell, e con collaborazioni brasiliane, danesi, spagnole.

Cos'è cambiato da ‘Singing To Strangers’?

Beh, non credo che avrei mai fatto un album così se non fosse accaduto quel che è accaduto, perché arrivati a un certo punto, guardare fuori dalla finestra non era più sufficiente. E quindi mi sono creato questo mondo che è ‘Europiana’, un po’ per viaggiare, un po’ per ricordare, più che altro per trasmettere la speranza di poterci garantire un futuro che ci consenta di tornare a vivere i ricordi di una volta.

‘Europiana’ è un suono e un concetto...

Sì. Volevo cogliere quel momento in cui la musica europea è cambiata, con l’arrivo di quella americana, il suono risultante che ho chiamato ‘Europiana’ e che considero aspirazionale, diverso dal genere ‘Americana’, per esempio, che è l’idea degli spazi aperti, dei pick-up truck, del sogno americano, della natura selvaggia e della libertà; ‘Europiana’ è più glamorous, più festa, più lusso, più romantico, è il senso dell’occasione. Volevo che l’album desse la sensazione di una bottiglia di champagne che si apre.

C'è tanta disco, ma con l'elemento melodico sempre presente, che apre strade, strutture, soluzioni armoniche...

Sì, e questo è tipicamente ‘Europiana’. La musica americana, specialmente negli anni 60 e 70, era molto ripetitiva, per il suo derivare dal blues. Anche la disco music americana era molto ripetitiva, ma quando ha attraversato l’oceano si è scontrata con la tradizione del cantautorato europeo, con le melodie molto sofisticate degli chansonnier, storie profonde, dettagliate, confrontate a basi molto disco-funk: il risultato di questo scontro, a parer mio, è tipicamente ‘Europiana’: Julio Iglesias, Abba, Giorgio Moroder, Phoenix, Daft Punk, gruppi con ritmiche decisamente americane e cantato molto europeo.

Musica europea che, hai dichiarato, non è l'Eurovision Song Contest.

Sì, sono due cose diverse. L’Eurovision Song Contest non rappresenta esattamente quello che, musicalmente, sta accadendo in Europa. Rappresenta piuttosto ciò che sta accadendo in tv in Europa, è più lo specchio dello show business europeo che non della musica europea.

Bandiera di ‘Europiana’ è ‘Who’s Hurting Who’, consegnata nelle mani di Nile Rodgers.

Nile è il padrino del cambiamento della musica in Europa, specialmente con gli Chic, i cui album hanno messo la freccia alla nuova musica europea. Prima di loro, tutto era diverso; ci hanno portato questo suono tipicamente disco, perché la disco americana era qualcosa di veramente underground, mentre quella europea era superlusso, niente a che vedere con l’underground.

Il pianoforte in ‘More Than Ever’ è un altro segno tangibile del cambiamento...

Sì, un cambiamento dovuto al fatto che per il Natale prima della pandemia mi sono regalato un Bechstein. Volevo festeggiare il successo dell’album precedente, volevo regalarmi qualcosa che nella mia famiglia potesse sopravvivere dopo che io non ci sarò più, qualcosa da poter lasciare ai miei figli, e ai figli dei loro figli. Con l’arrivo del lockdown mi sono detto che non avevo scuse: dovevo imparare a suonarlo, una canzone al giorno. Ho trasformato la pandemia in qualcosa di educativo per me, e ho suonato quasi 60 cover su Instagram, ogni giorno una nuova, meglio se dal mood positivo per chi ascoltava.

C’è altro pianoforte in ‘War Of Words’, splendido inno ‘pacifista’...

L’ho scritta per i miei figli, preferisco chiamarla una ninna nanna di positività, di speranza, con dentro una filosofia che spero si porteranno in giro, quella di non essere mai cattivi con le parole.

A proposito di figli. Due anni fa alla Rsi ci dicesti che tua figlia ti definiva “uno che canta agli sconosciuti”, e con quella definizione ci hai intitolato un album: la pensa sempre allo stesso modo?

Sì, sono sempre quello. Anzi, da quando mia figlia è venuta al concerto di Wembley, dove ho raccontato al pubblico questa storia, non si è più allontanata da questa sua definizione del padre. Ma in effetti ha ragione, è un concetto che è davvero difficile da mettere in discussione: cantare agli sconosciuti è esattamente quello che continuo a fare.

Dal 27 di luglio torni dal vivo: è più la voglia di ricominciare o la ruggine?

Hai ragione a dire ruggine, è qualcosa di cui nessuno si rende conto. Sono quasi due anni e mezzo che non suoniamo, sarà interessante anche per noi vedere come vanno le cose. Già questa settimana dobbiamo provare per degli show in radio, sono curioso di vedere cosa succederà. La parte difficile è anche il non poter avere tutta la mia originale band qui. Per motivi di spostamenti, devo usare musicisti diversi. Sono tempi molto complicati, ma spero di poter tornare presto alla mia squadra.

A proposito di squadra. Euro 2020: Italia o Inghilterra?

Io sono azzurro, quando si parla di nazionali sono totalmente azzurro. Quest’anno sto sognando. È bello perché è il primo anno in cui mio figlio segue il calcio, ed è letteralmente impazzito. E anche lui è azzurro.

Ok. Comunque vada, ti aspettiamo in Svizzera

Spero a novembre a Lucerna, di sicuro a marzo 2022 a Zurigo. Confido nell’estate prossima, perché i festival più belli al mondo sono in Svizzera.

Così potrai tornare nel tuo ristorante preferito...

Alla Posta, su a Carona. Come sempre, di regola.

L’intervista integrale, sabato 26 giugno in ‘Generi di conforto’, il podcast della ‘Regione’


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