Si chiude venerdì 16 dicembre al Lac il tour di ‘Europiana’, disco-ponte tra gli States e il Vecchio Continente. ‘E adesso un album in italiano’
«Sarà intimo, romantico, pieno di energia. È il nostro gran finale, lasceremo tutto sul campo, questo è poco ma sicuro». Si chiama ‘Europiana Live Tour’, prende il nome dal suo ultimo lavoro discografico, giunge al Lac di Lugano il prossimo 16 dicembre e lì si conclude. Un anno e mezzo dopo la sua uscita – sofferta, come ogni manufatto artistico uscito in pandemia – Jack Savoretti porta la sua ‘creatura’ a pochi chilometri dal luogo in cui ha trascorso l’infanzia: «Certo che ci passerò», ci dice. «Arriverò in Ticino un giorno prima, di giovedì sarò in giro per Carona».
Disco che unisce il groove che viene dall’America con il cantautorato che viene dal Vecchio Continente – e con una buona dose d’italica melodia che sempre lo accompagna – ‘Europiana’ ha avuto l’ultimo sussulto in versione ‘Encore’, sei nuove tracce aggiunte al preesistente, in testa ‘You Don’t Have To Say You Love Me’, un po’ Elvis Presley e un po’ Pino Donaggio, che quella canzone la scrisse come ‘Io che non vivo senza te’. E il versatile Jack, che canterebbe bene anche le istruzioni del tostapane, non fa rimpiangere nessuno degli interpreti di un brano divenuto ‘standard’.
Il luganese Savoretti è pronto per nuove avventure. L’ultima volta fu lo studio del pianoforte, compagno di lockdown. È da lì che ripartiamo…
Come va con il tuo Bechstein?
Vorrei dire ‘benissimo’, il mio baby grand (pianoforte a mezza coda, ndr) è sempre lì che mi fissa, ma tutta la disciplina portata dal lockdown in questo momento è sparita. Il 2022, d’altra parte, non è stato un anno di creatività ma di condivisone di quanto realizzato nei mesi in cui siamo rimasti chiusi in casa. Stiamo girando molto, ora siamo alla fine. E il Gran finale, chi l’avrebbe mai detto, è a Lugano.
Fine del tour, tempo di bilanci: com’è stato il viaggio di ‘Europiana’?
Un viaggio stupendo con un pubblico stupendo, felice per il fatto di poter vivere nuovamente la musica dal vivo almeno quanto noi lo siamo stati di poterla suonare. Abbiamo tutti, e mi ci metto io per primo, dato la musica dal vivo per scontata, ed è cosa che è bene non fare più. Da parte mia, ho compreso in pieno l’importanza di suonare per un pubblico vero, non solo dentro a un computer, sopra uno schermo o tra le quattro mura di uno studio di registrazione. Suonare per la gente, che senti e tocchi, è la gratificazione più grande che si possa provare da questo mestiere. Ancor più con ‘Europiana’, album difficilissimo da fare, scritto nel primo lockdown e inciso nel secondo; appena uscito, è iniziato il terzo. La sensazione è stata quella di avere costruito una barca a vela efficientissima per la quale ci è stato detto che uscire sarebbe stato troppo pericoloso; poi, quando il mare ce l’ha concesso, siamo salpati per la tournée di un album uscito quasi un anno e mezzo fa, cosa stranissima per quelli che sono i tempi odierni. Poter dare tempo a un album è stato un lusso che l’industria discografica non contempla più da tempo.
È cambiato, se l’hai trovato cambiato, il tuo pubblico?
L’ho trovato più intimo e più entusiasta. Al suo interno, non solo con noi. Prima del lockdown, se sbirciavi da dietro il sipario e guardavi verso la platea, li vedevi seduti al loro posto con gli occhi verso il palco, ad aspettare; ora, se guardo fuori, vedo tante persone che parlano a chi è seduto dietro, che fanno conoscenza. È l’intimità di cui dicevo. Credo si sia creato un legame che arriva dalla sensazione di essere sopravvissuti a qualcosa, tutti insieme.
‘Europiana’ fonde suoni europei e statunitensi, influenze passate e presenti. Da qui al futuro prossimo, un ‘Europiana 2’ potrebbe aggiornare la fusione?
Sono da sempre aperto a ogni tipo d’influenza. Da parte mia, ho l’abitudine di non fare mai un album uguale al precedente. È raro che io decida troppo in anticipo come sarà un nuovo disco, rimango ad aspettare, come un pescatore. Non ho una grandissima immaginazione, devo attendere che accada qualcosa da poter usare a mio favore, qualcosa che mi renda felice. È l’attitudine che lungo questo tour ha fatto nascere e crescere in me la voglia di realizzare un album in italiano, per buttarmi completamente sott’acqua, in profondità alle quali non sono ancora abituato. Mi è tornata la voglia d’imparare, di stare fuori dalla mia comfort zone.
Questo desiderio d’italianità ci porta dritti a ‘Io che non vivo senza te’: prima che un omaggio alla canzone italiana, confessalo, è una sfida lanciata al Re del Rock...
Totalmente, è una sfida lanciata a Elvis e a tutti i grandi che l’hanno cantata (ride, ndr). ‘Io che non vivo senza te’ è una di quelle canzoni così grandi che se decidi di cantarle, non puoi fare cavolate, devi metterci il 100% di te e rispettarla, perché è magica e ha un grande suono. Per com’è stata scritta e realizzata, non puoi andare a velocità ridotta. E se c’era uno che andava a tutto gas, quello era proprio Elvis.
È, idealmente, ‘Io che non vivo senza te’ il punto di partenza per il disco in italiano?
Il mio album in italiano non sarà un disco di cover, ma di brani originali. Sto imparando a scrivere, lavoro con un autore italiano, Simone Zampieri, anche noto come The Leading Guy. Ha scritto con Vinicio Capossela, ha aperto concerti per noi, ed è diventato un carissimo amico. Inizialmente, Simone scriveva in inglese; visto che lo faceva così bene, ho pensato che avrebbe potuto fare lo stesso in italiano e gli ho chiesto d’insegnarmi, perché il mondo linguistico italiano è completamente diverso da quello inglese. Un paio di canzoni le abbiamo.
Ogni volta che mi è stato suggerito di scrivere in italiano, ho sempre risposto che non l’avrei fatto tanto per farlo, ma che sarebbe dovuto esistere un motivo, simbolico, personale. Con la mancanza di mio padre, che se n’è andato l’anno scorso proprio a Lugano, mi sono trovato di fronte a un bivio: staccarmi dall’Italia una volta per tutte per risparmiarmi il dolore o buttarmici dentro, riscoprendo una terra tutta mia, diversa da quella di mio padre, ma che mi potesse tenere legato a lui per sempre. Ho scelto questa strada.
Partendo da Nile Rodgers, al tuo fianco in ‘Europiana’, ti avrei chiesto quale altro grande produttore avresti voluto in un prossimo album. Quincy Jones, magari? E visti i programmi futuri, estendiamo la rosa dei tuoi desideri ai produttori italiani?
Quincy Jones sarebbe un nome. Ho avuto l’onore di conoscerlo e di suonare al suo compleanno, all’O2 Arena di Londra. Non amo solo il Quincy Jones di Michael Jackson, ma anche e soprattutto quello di Frank Sinatra, una produzione che a mio parere rappresenta la sua vera scuola, il suono della big band attualizzato, questa ‘cosa’ classica riempita di ritmo, dalla funzione differente. Le cose più belle di Sinatra, io credo, sono proprio quelle pensate da Quincy Jones. Ethan Johns è un altro grande nome, e così Mark Ronson. Tra gli italiani, Tommaso Colliva, produttore incredibile, vorrei tanto fare un album con lui.
Disco in italiano, produttore incredibile italiano: per il prossimo album abbiamo un primo indizio…
Sì. Abbiamo una mappa. Ora bisogna partire.