Di terra in terra, da Sud a Nord, di secolo in secolo: a San Pietro di Stabio è stato un viaggio nelle radici della musica del mondo
“Malidittu ddu mumentu/Ca graprivu l'occhi nterra/Nta stu nfernu”. È un colpo basso, per un cuore siculo, l’omaggio iniziale di Ginevra Di Marco alla voce viscerale della Sicilia, Rosa Balistreri, nella seconda serata ‘Ul suu in cadrega’, alla masseria ProSpecieRara di San Pietro di Stabio. Una scossa emozionale, come emozionale è il ritorno a un concerto dal vivo, in un’atmosfera che sembra dire “la guerra è finita”. Sabato sera ogni cosa sembrava di nuovo al suo posto, come tutto dovrebbe essere in una sera di un’estate imminente: il cielo limpido, la birra alla spina, il profumo delle salamelle (e forse anche un po’ della prudentemente ritrovata libertà). E la musica, quella vera, suonata su un palco. Di nuovo quella curiosa attesa di sapere quale sarà il prossimo pezzo, il saltar su alle prime note di quel pezzo là che è quello che ci piace di più, o di quell’altro che non facevano dal vivo da tempo. E Ginevra ci mette del suo, accompagnata da Francesco Magnelli alla tastiera, Andrea Salvadori alle chitarre e corde varie e Luca Ragazzo alla batteria.
È un viaggio nelle radici della musica del mondo, dal folk siciliano rivestito di sonorità greche di ‘Amuri Amuri’, ai Balcani, poi oltre oceano giù fino nell’Argentina di Mercedes Sosa con una triade di brani (‘Volver a los diecisiete’, ‘Luna tucumana’ e ‘Solo le pido a Dios’) tratti dal disco-tributo portato anche sul palco di Longlake nel 2017. E poi di nuovo in un altro Sud, nell’‘Amara terra mia’ di Domenico Modugno, e ancora nella natìa Toscana a cantare ‘La Leggera’ dei lavoratori stagionali. Di popolo in popolo, da Sud a Nord e indietro nel tempo, fino al 1799 da cui viene ripescato il ‘Canto Sanfedista’, il malessere dei “populo vascie”, dei “puverielle”, dei “populane”, quelli per i quali gli ideali giacobini erano pura retorica di fronte alle precarie condizioni di vita materiale sotto un padrone o un altro: “So' venute li francise, aute tasse n'ci hanno mise, liberté... egalité... tu arruobbe a me, io arruobbo a te!”.
Quando ci si è infine riabituati all’atmosfera di un concerto, ci si prepara ad andare a casa con ancora la voce cristallina di Ginevra nelle orecchie, arriva però la botta finale quella dei lucciconi che erano là attaccati e respinti indietro. “Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così…”: quella perla rarissima che è ‘Annarella’, dall’ultimo capitolo dell’epopea dei CCCP ‘Etica Etica Etnica Pathos’ (e che pathos), sbattuta là, a freddo a buttar giù le ultime resistenze, seguita a ruota da ‘Amandoti’, ancora da quella pietra miliare, in una versione forse un po’ ‘leggera’, ma senza lustrini, voci raschiate e camicie a sbuffo (chi vuole intendere, intenda).
E alla fine, si fa quello che si fa in ogni concerto, Covid o meno: ci si alza in piedi, ci si muove (sul posto, a distanza, ma ci si muove!), si canta insieme ‘Malarazza’: “Tu ti lamenti, ma che ti lamenti, pigghia lu bastuni e tira fora li denti”. Il viaggio musicale finisce, lasciando però l’idea che, incrociando le dita, il ritorno alla normalità sia appena iniziato.