Storia di Valerio, di papà Alfonso (il Favino Coppa Volpi a Venezia 77) e di un amico, forse, non immaginario: in sala dal 15 maggio il film di Claudio Noce
Valerio Le Rose (Mattia Graci) ha dieci anni ed è biondo; ‘U tedesco, lo chiama lo zio calabrese. Vive in un condominio di Roma con papà Alfonso (Pierfrancesco Favino, Coppa Volpi a Venezia 77 per questa interpretazione), mamma Gina (una bravissima Barbara Ronchi) e la sorellina Alice (Lea Favino, figlia di Pierfrancesco), che hanno tutti i capelli scuri. Valerio ha un amico immaginario al quale porta di nascosto le cotolette e con lui gioca a subbuteo in qualche segreto anfratto del palazzone; tifa Lazio e Giorgione Chinaglia è il suo idolo, come per chiunque tifi Lazio nel 1976. Un brutto giorno, i sogni di ragazzino vengono interrotti da raffiche di mitraglietta; mamma Gina intuisce e corre all’entrata del palazzo; nessuno si accorge di lui, ma anche Valerio intuisce e si fionda in strada: dal cancello dietro il quale si è rifugiato, riesce a incrociare l’ultimo sguardo di un uomo che si toglie un passamontagna e rantola supino sul selciato, colpito a morte. Per giorni, mamma Gina dice ai figli che papà è via per lavoro e chiude a chiave la porta del salotto, dove sta la televisione.
Quando papà torna a casa, Valerio può tornare a scuola: “Sapete chi è il papà di Valerio?”, chiede l’insegnante ai compagni di classe, e Valerio ha solo voglia di normalità, non di protagonismo. Lo aiuterà in questo il 14enne Christian (Francesco Gheghi), spirito libero tendente al clochard, spuntato dal nulla insieme a un inseparabile borsello appeso al collo a colmare la solitudine di Valerio con una botta di vita fatta di calcio, giri in bicicletta, bigiate di scuola e furti di elemosina in chiesa. Forse Christian è un altro degli amici immaginari del ‘tedesco’, di quelli che nei film ti accorgi che – ma è logico! – non esiste perché nessuno ci ha mai scambiato due parole; oppure è un piccolo uomo cresciuto troppo in fretta, reale e in carne e ossa, che dalla sua giovane vita cerca risposte almeno quanto Valerio.
Valerio (Mattia Graci) e Christian (Francesco Gheghi)
Sono i primi venti, raccontabili minuti di ‘Padrenostro’, prima che la storia si sposti in Calabria a rivelarsi per intero e a spiegare l’incipit ‘metropolitano’ della pellicola. ‘Padrenostro’ è il film di Claudio Noce che da Venezia 2020 arriva nelle sale ticinesi il 15 maggio, forte di sette minuti di applausi in sede di anteprima festivaliera e del racconto parzialmente autobiografico di un regista, Claudio, che è il figlio di Alfonso Noce, un tempo responsabile della sezione antiterrorismo di Lazio e Abruzzo: il 14 dicembre del 1976, quando il padre viene ferito alle gambe da alcuni dei cento proiettili esplosi dai Nuclei armati proletari, Claudio ha un anno e quattro mesi; l’esperienza di quel giorno è la fedele ricostruzione di quanto vissuto dal fratello undicenne, spunto per l’intero racconto.
Nel vero attentato del 1976, portato a segno a Roma, all’uscita dell’abitazione di Monteverde, muoiono uno dei due poliziotti della scorta, il 24enne Prisco Palumbo, e un terrorista, Martino Zichitella, probabilmente vittima del fuoco amico. Gli altri quattro responsabili dell’agguato, balzati in strada insieme al quinto da un furgone, saranno identificati dalla Digos di Roma e successivamente arrestati e condannati all’ergastolo.
Mamma Gina (una bravissima Barbara Ronchi)
In questa storia di vite sotto scorta, una scorta che alloggia in casa e viaggia, sempre con due ruote oltre la mezzeria, nell’Alfa Romeo incollata alla Fiat 1300 di famiglia, brillano le interpretazioni di Barbara Ronchi, mamma Gina, un passo dietro l’amore totale di Valerio per il padre-eroe (“Ma perché io non ti basto?”); e brilla l’esordiente Mattia Graci, Valerio, piccolo grande talento scelto tra quattrocento aspiranti Valerii. La sua zazzera bionda fa il pari, per evocazione dei Settanta, con gli infissi e le tappezzerie di casa Le Rose, col subbuteo, coi giornaletti, la visita medica a scuola davanti a tutta la classe e la diagnosi del soffio al cuore, una delle paure degli scolari di quegli anni insieme a Belfagor (“Tutti ce l’hanno un po’ di soffio al cuore”, lo dice anche papà Alfonso). Brilla forzatamente anche Pierfrancesco Favino, monumentale ovunque egli si trovi, al netto dell'accento del sud di papà Alfonso, che ci riconsegna ‘Il Traditore’ anche se non lo abbiamo chiesto.
La forza di ‘Padrenostro’ è più visiva che narrativa e, in questo senso, la candidatura agli ultimi David di Donatello di Michele D’Attanasio per la migliore fotografia è una testimonianza. La sensazione più generale, a titoli di coda che scorrono – e con Favino sempre nei paraggi – è quella provata a visione conclusa de ‘Gli anni più belli’, e cioè del romanzo familiare non pienamente riuscito (con la differenza che Noce, malgrado quell’unica candidatura, al contrario di Muccino, non si ritiene un perseguitato). Al di là di una ‘soluzione finale’ alla quale si deve concedere il fascino dell’inverosimile – una scorta dovrebbe sapere chi lo scortato si tira in casa, ma va bene così–, Noce regala comunque alcuni bei momenti di cinema. E ‘Buonanotte fiorellino’, spensierato e non casuale valzerino che accompagna l'agguato, è davvero un bel momento.