Citando Carl Sagan, la band italo-ticinese esce con il nuovo album, già 2 milioni di stream su Spotify. A colloquio con Fernando ‘Fella’ Di Cicco
Partiamo dai numeri: al momento, oltre due milioni di stream su Spotify per il loro nuovo album, segno che la doppia cassa, il metronomo a palla e i tanti piatti non fanno paura, anzi. Ancor meno ora che Sanremo ha sdoganato le maniere forti: «Sono contento di questa cosa. Non guardo, onestamente, il Festival di perché non provo così tanto interesse. Sabato invece mi è capitato di guardarlo e la band che ha vinto (Måneskin, ndr) è stata veramente brava, sono molto contento per loro».
Di ‘A Pale Blue Dot’, disco fresco di stampa e dagli immediati riscontri dentro e fuori i confini nazionali, parliamo con Fernando ‘Fella’ Di Cicco, chitarra e voce dei Dreamshade, in nome e per conto di una band italo-luganese (prima luganese, di fondazione, poi italo) dall'impatto live decisamente energico (eufemismo). Il Ticino, d'altra parte, quando si tratta di darci dentro sa farsi rispettare: «I Gotthard sono stati i primi a uscire da questi confini e a diventare una band internazionale, c’è un rispetto molto grande da parte nostra. Ogni volta che viaggiamo all’estero troviamo loro tracce, in Germania ma soprattutto in Giappone, dove l’anno scorso siamo tornati per la terza volta. In molti dei luoghi dei meet and greet con i fan c’erano loro foto appese al muro».
Quattordici tracce, dal porto sicuro ‘Safe Harbour’ ai controtempo di ‘Save This’ e in mezzo le collaborazioni con Rose Villain (‘Stone Cold Digital’, traccia 5) e John Henry dai Darkest Hour (‘Nothing But The Truth’, traccia 12). Il titolo dell’album, ‘A Pale Blue Dot’, viene da quanto visto dal Voyager 1 nel 1990 a 6 milioni di distanza dal Pianeta Terra. E il “pallido puntino azzurro”, traducendo, era proprio il Pianeta Terra, pallore profetico se visto con gli occhi di oggi: «Sì, credo sia in linea con il momento storico che stiamo vivendo, ma anche con l'idea che volevamo rappresentare, una visione esterna della Terra, e di quell'ampiezza Carl Sagan (astronomo e divulgatore scientifico, ndr) ci era arrivato prima di noi. Ci siamo ispirati al suo libro (‘Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space’, ndr) e abbiamo combinato la musica e il tributo a lui e alla sua legacy».
Con i Police sempre nel cuore – «Sono una grande band a 360 gradi. E non è una questione di genere, ma di genio» – in ‘A Pale Blue Dot’ i Dreamshade sperimentano tra i confini della tradizione: «Questo disco è davvero l’insieme di tutti i generi che abbiamo suonato dagli inizi fino a oggi, con un suono attuale, moderno». Suono che ha le orecchie di Jacob Hansen, produttore danese nominato più volte per il Grammy e dietro l'identità sonora di molte altre formazioni. Hansen che per i Dreamshade è una specie di George Martin: «Tra tutti gli ingegneri del suono assunti nel corso della nostra storia, Jacob è l’unico che ha veramente capito dove volessimo andare, già sette anni fa. Questo, secondo noi, lo ha reso il sesto membro della band».
Detto ciò. Come se la passano i Dreamshade, band da open air, chiusi in casa? «È stato un colpo durissimo. L'anno scorso, a fine febbraio, ero ancora in tour in Germania con la mia seconda band, i Darkest Hour. Alla fine dei concerti, passando da Milano, ho visto le prime mascherine. Smettere di colpo e chiudersi in casa è stata una mazzata. Ora ci stiamo abituando. Ma siamo riusciti a essere molto positivi, a sfruttare il fatto che non si possa fare granché se non produrre nuova musica, ed è quello che stiamo facendo, già oltre questo nuovo album». Oltre, ci sono anche nuove terre da esplorare: «Abbiamo girato diversi continenti, ci mancano Sudamerica e Oceania. Negli ultimi anni abbiamo visto reazioni positive da Brasile, Colombia e Australia. Ci stiamo lavorando».
Per quel che può contare, la nostra traccia preferita è ‘A Place Called Home’, poco ‘spaziale’ e molto terrena: «Sono partito dagli occhi di un rifugiato siriano, immaginando cosa avessero potuto vedere mentre lasciavano un posto chiamato casa. Il testo è poi sfociato in una riflessione più generale su come, nonostante ciò che dovremmo avere imparato dalla storia, non sappiamo ancora vivere gli uni con gli altri, e vederci come un’unica grande famiglia».