Spettacoli

'Ritorno in apnea': se non sei stato a Bergamo non puoi capire

Film Festival Diritti Umani: il documentario di Anna Maria Selini sui giorni del coronavirus nella sua Bergamo, oggi e domani a Lugano. L'intervista

Oggi alle 17.45 al Cinema Iride, in replica domani alle 11 al Cinema Corso, alla presenza della regista (nella foto)
17 ottobre 2020
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La prima immagine dei camion militari che lasciano Bergamo la notte del 18 marzo scorso è di un napoletano. Emanuele Di Terlizzi, assistente di volo, tornato a prendersi le sue cose, sente un gran baccano; si affaccia al balcone del salotto e vede la polizia che ferma i passanti affinché la lunga colonna di mezzi che caricano le bare scivoli via. Il giovane scatta una foto, la condivide con gli amici e la foto fa il giro del mondo. Forse apre gli occhi agli scettici. O almeno alla maggioranza. Andata via da Bergamo a diciott’anni, passata per Bologna, Madrid e poi per la Capitale, Anna Maria Selini apre così il suo documentario ‘Ritorno in apnea’, oggi alle 17.45 al Cinema Iride di Lugano nell’ambito del Film Festival Diritti Umani (in replica domenica 18 alle 11 al Cinema Corso, sempre alla presenza della regista). Lo apre andando a intervistare chi, a suo modo, le ha suggerito questo misurato, rispettoso racconto di quei giorni attraverso più occhi e più voci. «Quella notte – spiega a laRegione la giornalista e regista italiana – avevo già in testa l’idea di tornare a casa, per fare qualcosa, malgrado chi mi stava intorno cercasse di dissuadermi. Fu vedendo quelle immagini che dissi basta, piansi e non mi vergogno a dirlo. Nessuno mi avrebbe potuto fermare».

Gli occhi e le voci di ‘Ritorno in apnea’ sono quelli dei professionisti coinvolti nell’emergenza bergamasca, anche quelli mandati 'al fronte' con una mascherina medica "da usare sino alla lacerazione", quelli col posto fisso licenziatisi quando le Rsa, dapprima blindate, sono state riaperte ai convalescenti da Covid-19, quella sensazione di avere infettato gli anziani che non fa dormire la notte. Gli occhi dei sopravvissuti alle corsie d’ospedale, quelli dell’amico d’infanzia Simone e di Alessandra, entrambi a commemorare i rispettivi padri. Alessandra terrorizzata dall’idea di farsi intervistare, nella generale difficoltà, per la regista, di raccogliere testimonianze: «Arrivavo da Roma – racconta – dove avvertivo la voglia della gente di uscire di casa. Sono passata dai romani che fremevano, con la scusa della spesa o del cane, per scappare fuori ai bergamaschi terrorizzati che quasi non contemplavano più l’idea di uscire di casa. Quando a Bergamo chiedevo un’intervista, davano per scontato che sarebbe stata su Skype, soluzione che ho riservato ai soli ospedalizzati. Faticavo a comprendere la cosa perché non c’ero stata dentro».

Indole o trauma

“Non c’ero stata dentro”, che equivale a “Se non sei stato qui non puoi capire”, che è quanto ti senti dire in città e nelle valli. Selini ancora non sa se sia stata l’indole bergamasca a dare alle persone quella rabbia mai gridata o se invece sia altro. «Credo che l’indole c’entri molto di fronte a una tragedia così grande. Questo non impedisce ai bergamaschi di denunciare, cosa che non hanno smesso di fare. Però c’è anche l’aver dovuto saltare le tappe culturali che fanno parte dell’elaborazione del lutto, il vegliare il morto, il poterlo accompagnare fino all’ultimo, il funerale, tappe senza le quali non riesci a renderti conto dell’accaduto. E non riesci a ricominciare». Per dirla con le parole della psicologa Nicole Adami, tra le testimonianze più interessanti, «lo stesso lutto delle madri di Plaza de Mayo, le madri dei desaparecidos, che non si sono ancora rassegnate».

C’è un’altra psicologa in ‘Ritorno in apnea’ ed è colei che ci definisce tutti “la generazione della Milano da Bere”. «Si chiama Laura Tiraboschi, è lei che nelle conversazioni che ho inserito parla di “vivere in apnea”, ispirandomi il titolo. Riconosce che non siamo la generazione dei nostri nonni, che hanno fatto la guerra, che hanno ricostruito l’Italia, che sono poi quelli venuti a mancare. Noi, come dice lei, al massimo dobbiamo pensare a dove fare l’aperitivo. Non abbiamo questo ‘allenamento’». La scusante: «Le pandemie non sono cose frequenti, ancor meno nella Bergamo ricca e operosa».

Da Gaza alla Bergamasca

A Roma, in quella notte di marzo coi camion nelle strade, Anna Maria Selini tira via la polvere dalla telecamera usata nella striscia di Gaza e la mette in valigia. “Specializzata nelle aree di crisi – scrive nelle note introduttive al suo lavoro – mai avrei pensato che la mia terra lo sarebbe diventata”. «Le aree di crisi – ci dice di persona – non sono soltanto le guerre, sono anche quelle colpite da terremoti, alluvioni. Jessica Costanzo, giornalista di Valseriana News, che ho intervistato, mi ha proprio parlato di una situazione di terremoto quotidiano. I traumi. D’altra parte, sono molto simili. Non a caso sono intervenuti gli psicologi dell’emergenza, che agiscono dopo eventi ambientali particolarmente forti». Il racconto, giornalistico e senza nulla concedere al dolore tout court, dosa bene le sensazioni di chi sta dietro la telecamera: «È stato come se mi avessero cambiato il mondo senza prima farmi avere le istruzioni», spiega Selini. «Sono saltati i miei punti di riferimento fisici, spaziali. Ero abituata a entrare sull’A4 facendomi la croce per tutto il traffico che vi transita e la vedevo vuota, quell’autostrada che io chiamo ‘La geografia della mia infanzia’, essendoci nata vicino. E non ritrovavo più gli odori, i rumori». Rumori come quelli delle sirene delle ambulanze che, contro la regola vigente, il direttore del 118 di Bergamo a un certo punto ha dato ordine di zittire: «La gente era angosciata. Ne sentivo in continuazione. Ma prima che io arrivassi, mi dicevano, il suono era continuo, da far saltare i nervi».

’Qualcosa abbiamo imparato’

“Non sei davvero morto se non sei sull’Eco di Bergamo”, oggi, è un detto che non è più un luogo comune. Dal 12 al 29 marzo, l’’Eco’ stampava 13 pagine di necrologi. L’’Eco’ che nel film spiega l’analisi condotta in prima persona sul totale ufficiale dei morti, che è da moltiplicare per due. Non che la cosa convincerà mai i negazionisti: «Non li considero e non provo rabbia per loro», commenta la regista. «So solo che mancano di rispetto verso le persone che ho intervistato e verso chi se n’è andato via soffocando, stringendo, se fortunato, le mani di sconosciuti, per quanto infermieri amorevoli». Chiudiamo parlando di ‘Ritorno’, nelle ore in cui, non solo a Bergamo, tornano a crescere i numeri: «Bergamo ha pagato l’essere stata la provincia più colpita d’Italia, ha pagato l’essere stato, il ceppo bergamasco del virus, il più aggressivo, ha pagato gli errori della zona rossa mai istituita, e la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo. Mi auguro che qualsiasi debbano essere ora le condizioni, non si ripetano tutte insieme. Ricordiamoci però cos’è successo e quel che potrebbe succedere ancora. Qualcosa abbiamo imparato, ma ci è costato tanto».