Spettacoli

‘Una vera tragedia’, quando il teatro smarrisce ogni certezza

Lo spettacolo di Riccardo Favaro e Alessandro Bandini chiude, senza senso, il Festival internazionale del teatro

Una Vera Tragedia (foto LAC Studio Pagi)
13 ottobre 2020
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L’atmosfera è lynchiana : un salotto borghese, un delitto domestico, ‘huis clos’ familiare, poche luci, arredo essenziale, e la polizia che irrompe sulla scena di un crimine. C’è molta eleganza e drammatica superficialità tra i personaggi. Il dramma dell’incomprensione e la tensione del linguaggio, una gabbia di convenzioni da sradicare, ed ecco che subentra anche l’universo di Edward Albee (‘Chi ha paura di Virginia Woolf?’).

Questo ho ritrovato in ‘Una vera tragedia’ di Riccardo Favaro e Alessandro Bandini, prima internazionale presentata gli scorsi giorni (12 e 13 ottobre) in chiusura del Fit, il Festival internazionale del teatro. Lo spettacolo, prodotto dal Lac in coproduzione con una delle più interessanti piccole realtà teatrali milanesi, il Teatro i, porta in scena lo scardinamento tra testo e azione drammatica attraverso una storia che continua a ricadere su se stessa in un loop distorto. C’è un padre, c’è una madre, che prima si chiameranno Vater e Mamma e poi Padre e Madre, c’è un figlio, che poi diventano due, e poi uno. Ma c’è anche un testo in sovraimpressione, che quando gli aggrada se ne va per conto suo, a raccontare i non detti e gli inconsci, riempiendo silenzi, proponendo interpretazioni. E vien da chiedersi, sono gli attori che non seguono le battute o sono queste a scappare via? 

E poi, poi c’è anche il mondo delle sitcom americane – gesti plateali sottolineati dagli applausi e frasi o movimenti apparentemente normali che diventano qui sinistri con le risate – e la tragedia, quella classica, con tanto di sacrificio ma senza coro, perché le azioni cadono inesorabilmente nell’indifferenza. 

Quel che conta in ‘Una vera tragedia’ non è tanto la trama, che sembra ripercorrere una torbida vicenda famigliare di speranze disattese, tradimenti, noia borghese e rivendicazioni, ma il fatto che ogni certezza vada abbandonata. Nulla rassicura, tutto allarma. Come la luce dello strobo fastidiosamente insistente, le ripetizioni, i flash back temporali, le continue domande evanescenti, dei personaggi e anche nostre. Ci sarà un sostrato psicoanalitico? Assistiamo alla messinscena di un archetipo? O ancora, insita nello spettacolo vi è una implicita critica sociale contro il patriarcato? 

Di certo c’è che ‘Una vera tragedia’ è uno spettacolo che non lascia indifferenti e apre a una serie di letture possibili e impossibili al tempo stesso, perché nessuna trova reale compimento, molte sembrano intuizioni volatili.

La difficoltà di scrivere un testo nato per essere poi destrutturalizzato viene spiegata così dall’autore stesso, Riccardo Favaro: «Il processo di prova dura da più di un anno, e solo dall’ultimo mese, con la produzione del Lac, abbiamo affrontato con il regista Alessandro Bandini diversi aspetti della messa in scena. ‘Una vera tragedia’ è stato scritto in varie frasi. Dello spunto originale, rimane soprattutto la prima parte. La seconda (da quando compare il figlio, ndr) è stata costruita sulla scena, con le prove, con l’allestimento».

Tranquillizzano gli spettatori usciti da teatro con molte domande e poche certezze le parole del drammaturgo quando dice che «non è la trama quel che conta veramente. Lo sforzo maggiore è stato, più che tentare di chiarire le chiavi di lettura possibili, provare a chiarire come non sia importante ricostruire degli eventi in modo logico. Gli stessi personaggi vivono in modo illogico le loro vite». È, prosegue l’autore, «un testo che propone diversi piani temporali», come vediamo 

nelle didascalie del ‘dopo’, ‘prima’ e ‘ancora prima’, «ma anche diversi piani psicologici». «C’è poi un’altra grossa ambiguità che mi preme sottolineare, ed è quella del montaggio. L’attore in scena, l’interprete, segue un percorso lineare che va dall’inizio alla fine in maniera cronologia, secondo il suo tempo. Ma il tempo dello spettacolo va a ritroso. E se questo è facilmente realizzabile nel cinema, su un palco non è possibile, perché se un attore si ferisce, poi la scena dopo sarà ancora ferita, anche se stiamo parlando del passato. Il montaggio consente solo operazione intellettuale quindi e non scenica». 

Quello a cui abbiamo assistito è poi, sempre secondo il drammaturgo, «uno spettacolo democratico. Io cerco di spiegare come il fatto stesso di non capire sia stato per me un motore creativo, e quindi ho provato la stessa sensazione dello spettatore, e dell’attore in scena. Ci sono dei vuoti, delle voragini che si aprono nel dialogo e creano vuoti di senso, sono gli stessi che hanno gli attori in scena, che ho io nella scrittura e lo spettatore nel guardare».

Ma qual è quindi questa vera tragedia? «Il titolo originale era ‘Buchi bianchi’, quella dimensione astrofisica per la quale i corpi emettono solo luce ma non riescono a farla entrare, le figure in scena dello spettacolo. Era un titolo però adatto al testo che avevo scritto precedentemente e non più applicabile allo spettacolo in scena. Ora ‘Una vera tragedia’ è un titolo ironico. È la possibilità di fare i conti con il fatto di avere dubbi sulle realtà del linguaggio».

Insomma, ci troviamo a fare i conti con molte, forse troppe, considerazioni alla fine di questa ora di spettacolo. Se la prima parte è di forte impatto sociale, culmine la scena del supermercato, ma anche la scoperta di un testo dietro di sé da parte della madre, la seconda appare più lenta e trascinata. Il lavoro interessante che fanno i bravi attori in scena – su tutti Alfonso De Vreese e Marta Malvestiti, entrambi diplomati alla Scuola di teatro Luca Ronconi del Piccolo teatro di Milano – viene a mio modo di vedere diluito nella reiterazione di ripetizioni e sconforto, slanci e smorzate, ghigni e desolazione. 

Curioso sarebbe poter andare a ritroso pure noi, come questa trama non trama, e rileggere il testo originale prima della messa in scena per capire se quello che a volte non ha funzionato sono alcune soluzioni sceniche. Ma come gli attori su un palcoscenico anche noi spettatori siamo costretti a seguire la temporalità degli eventi e restare un po’ smarriti di fronte al senso di quanto abbiamo visto. Un lavoro certamente molto interessante anche se la resa lascia alcune perplessità.