Spettacoli

Locarno 2020, la perfezione del cinema a Open Doors

Al Festival due film suberbi: ‘Kairat’ di Omirbaev e ‘Engkwentro’ (Scontro) di Pepe Diokno

Engkwentro” (Scontro) di Pepe Diokno
12 agosto 2020
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Esiste la perfezione al cinema? Seppelliti da immagini di ogni tipo, qualche volta si sogna di salire la scala della purezza cinematografica. Un po’ come si fa magari nel melodramma, e ogni tanto cerchi il Mozart di “Così fan tutte”, superbo libretto del Da Ponte e là scopri sublime la purezza del dramma in musica. Succede anche al cinema e talvolta basta rifugiarsi nel Griffith di “The Country Doctor” – la perfezione del cinema esisteva già nel 1909 – e comunque preziosa perfezione è atterrata anche al Festival di Locarno, grazia alla sezione Through The Open Doors con “Kairat“, film kazako del 1992. Il titolo originale è: “Кайра”, la sceneggiatura e la regia di Darezhan Omirbaev, la straordinaria fotografia in bianco e nero di Aubakir Suleyev, il montaggio fondamentale nella sua pulizia di R. Belyakova, e le musiche e il suono impressionanti di Gulsara Mukataeva. Per dire di questo film si possono scomodare Bresson, soprattutto per il lavoro con gli attori, Ozu o Hou Hsiao-Hsien e Tsai Ming-Liang per il minimalismo asiatico, ma Darezhan Omirbaev ha un suo tratto di originalità che lo rende unico: non un minuto si sente sprecato, ma passa semplicemente troppo velocemente. Vorresti fermare ogni inquadratura e dire all’operatore “fammela vedere ancora”. Il bambino che tira una linea sul muro, un gesto di insondabile bellezza, scivola nel film a narrare quello che resta del nostro agire umano una linea persa su una parete bianca a sporcarla, prima di sparire per sempre. Certo “Kairat” ha un difetto fondamentale: è troppo perfetto. E al lettore che chiede di una trama è facile rispondere è un film che parla d’amore, di innamorarsi, dell’essere giovani, in un mondo che cambia, che non è più quello in cui sei cresciuto. Un mondo che ha perso certezze: il 1992 è il primo anno dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la disgregazione di un Paese. E il film racconta la paura, la fragilità, l’angoscia di un nuovo mondo che ha cancellato gli ideali, che ha tolto dall’orizzonte il futuro. Un momento biblico e Darezhan Omirbaev lo testimonia senza pietà, eppure nel suo sguardo duro si scorge quella carità che San Paolo non chiamava amore, perché è una parola più piccola di “carità”. La si scorge nei riguardi del protagonista, vero Tamino, nel suo viaggio iniziatico. E i treni vanno e le sale cinematografiche sono ancora piene, è solo il debutto della fine.

Su un gradino appena più basso si pone, sempre grazie a Open doors “Engkwentro” (Scontro) di Pepe Diokno. Il regista filippino vinse con questo film il Premio della Sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 2009 e anche il Premio “Luigi De Laurentiis” Opera Prima. All’epoca il regista esordiente aveva 22 anni e il coraggio, macchina a spalla, di accompagnarci nelle ultime ventiquattr’ore di due giovani fratelli che si ritrovano a combattersi tra le bande che si contendono il controllo della droga nella baraccopoli di una città non identificata. Il sindaco della città per fermare la violenza delle bande giovanili ha a sua disposizione delle squadre della morte che senza scrupolo si sbarazzano di tanti bambini. E un perfetto noir, ben condotto e recitato, con ritmo e con una forte capacità di denuncia: non si dimentichi che una decina di anni fa, nel periodo raccontato dal regista, furono uccise solo a Manila oltre ottocento persone, la maggior parte minori, proprio dalle squadre della morte. Nel 2016 erano già 4600 vittime ufficiali, grazie alla politica del presidente Rody Duterte, uno che in campagna elettorale aveva detto che, se fosse stato eletto, con i cadaveri dei drogati avrebbe “ingrassato i pesci della baia di Manila”. Pepe Diokno dà dei nomi a quei cadaveri.