Un 'islandese' Will Ferrell ne ha per tutti, americani inclusi, in una deliziosa parodia-tributo al concorso canoro europeo più kitsch di sempre.
È la notte del 6 aprile 1974 a Húsavík, estremo nord dell’Islanda. Per la noia di papà Erick Erickssong (la ‘g’ finale non è casuale, di canzoni si parla) la tv islandese trasmette la finale dell’Eurovision Song Contest. È l’anno di Gigliola Cinquetti con la pruriginosa ‘Sì’ (ultima), canzone che meriterebbe articolo a sé (quell’anno la Rai non mandò in onda il concorso temendo che il titolo potesse influenzare il referendum abrogativo sull’aborto previsto a maggio). È anche il 1974 di Olivia Newton John non ancora Sandy che in gara per il Regno Unito augura lunga vita all’amore (‘Long live love’, quarta). È l’anno in cui, dalla fredda Finlandia, Carita al pianoforte bianco vince con la Bond-song ‘Keep me warm’ (Tienimi caldo). Ma è soprattutto l’anno di ‘Waterloo’, una sorta di visione armonico-ritmico-celestiale per il piccolo Lars (Will Ferrell) figlio di Erick e orfano di madre, e per l’inseparabile e già stralunata piccola amica Sigrit Ericksdottir (Rachel McAdams), forse parente, forse sorella (Erick’s dottir, essendo ‘dóttir’ in islandese ‘figlia’).
Discendenze a parte: gli Abba sono il motivo per il quale, ormai adulti e sotto il nome di Fire Saga, Lars e Sigrit sognano ancora di vincere l’Eurovision Song Contest. Per le selezioni islandesi hanno composto ‘Double Trouble’, alla quale la popolazione locale, nelle esibizioni dal vivo, preferisce invece la più territoriale ‘Jaja Ding Dong’, ritmica come il ballo del qua qua, criptica come 'Gelato al cioccolato'. Ma i due sognatori, ingenui quanto basta, non mollano nemmeno se l’Islanda ha già la sua stella, Katiana (Demi Lovato), che si dice possa addirittura vincere la finale che si terrà in Scozia. E il governatore della banca centrale d’Islanda (Mikael Persbrandt, ‘In a better world’, ‘The Hobbit’) è preoccupato non poco, visto che a Eurosong chi vince, poi, organizza la successiva, costosissima, edizione. Per motivi qui non anticipabili, ma che costituiscono parte del nocciolo comico del film, i Fire Saga rappresenteranno l’Islanda in Scozia.
Nel 2020 del concorso fermato dal virus, ‘Eurovision Song Contest: la storia dei Fire Saga’, su Netflix, appartiene alla categoria ‘Film che non cambieranno il mondo’, sottocategoria ‘Ma vederli male non fa. Anzi’. Quanto a satira, sarà meno profonda di ‘Candidato a sorpresa’ (la coppia Ferrell-Galifianakis calata nelle dinamiche elettorali americane, messe alla berlina), ma si ride già solo guardando a Ferrell in 'Volcano Man', ma anche pensandolo introdotto, nella vita reale, dalla moglie svedese al fantasmagorico concorso e illuminato anch’egli come Lars sulla via di Eurosong dalla musica della terra degli Abba (nel 1999, per lui fu Charlotte con ‘Take me to heaven’); Ferrell che un giorno, dopo molteplici peregrinaggi alle finali europee, s’immagina di dare vita alla miglior parodia dell’Eurovision Song Contest con tutti i suoi artistici e perfettamente riprodotti eccessi (anche musicali) per quella che è anche la sua celebrazione, accompagnata dai loghi ufficiali della manifestazione, dunque con il placet della Ebu (European Broadcasting Union) che dietro il festival sta. E sono tanti gli ospiti che nei titoli di coda sono ‘Se stesso’: da Graham Norton, storico commentatore dell’Eurovision per la BBC, ai vincitori, dal portoghese Salvador Sobral (2017) all’israeliana Netta (2018), dalla svedese Loreen (2012) fino all’austriaca Conchita Wurst (2014, sempre con barba). E molti altri, ospiti di un happening di Vip o musicisti di strada (Sobral).
L’Islanda, per cotanta (auto)ironia, è pienamente risarcita dalle musiche di Atli Örvarsson, le cui colonne sonore accompagnano i grandi prodotti della tv (‘Law & Order’, ‘Chicago Fire’) e del cinema (la saga de ‘I pirati dei caraibi’, ‘Stuart Little’, ‘Angeli e Demoni’, ‘The Code’). Il film, che ironizza su questa a volte (spesso, quasi sempre) eccentrica ma impeccabile macchina da spettacolo europea nata per fare concorrenza al Festival di Sanremo, non risparmia nemmeno gli americani, rappresentati in gita, e i russi, rappresentati dalla star (di fantasia) Alexander Lemtov (Dan Stevens, ‘Downtown Abbey’) costretto a camuffare l’orgoglio gay con voce a metà tra l'armata russa e Tom Jones, in un machismo putiniano che esplode sul palco in ‘Lion of love’, il leone dell’amore (“Dalla savana ti solleverò fino al cielo. E quando ruggirò, capirai che finito avrò”). Ci sarebbero pure i 21 Century Vickings, la ruota del criceto, una famiglia di provvidenziali elfi e la (splendida) canzone che non t'aspetti, vedi sotto. Ma niente spoiler, siamo islandesi.