Intervista al bluesman svizzero che parla del suo ultimo lavoro 'Let life flow' e di una storia 'circolare' che va dal cantautorato fino al Mississippi
“Milano che fatica, Milano sempre pronta al Natale che quando passa piange e ci rimane male”. È il passaggio stagionalmente più vicino a noi che riguarda la metropoli cantata da Lucio Dalla nel 1979, nell’album che porta il suo nome e che con sé porta anche ‘Anna e Marco’, ‘L’anno che verrà’ e tutto il resto. ‘Milano’ la canta Philipp Fankhauser nel suo ultimo ‘Let it flow’ in uscita in questi giorni, nuovo bel capitolo nella discografia del bluesman e songwriter svizzero per il quale cantare Dalla sarà pure «una scelta un po’ coraggiosa», ma riuscita, e alla grande. Complice l’infanzia ticinese: «Tra i dieci e i vent’anni – racconta alla ‘Regione’ – ho vissuto nel Locarnese e sono cresciuto con la musica di De André, Battisti, Lucio Dalla. ‘Banana Republic’ (tour, disco e film frutto della collaborazione tra Lucio e Francesco De Gregori, ndr) è un disco strepitoso, uno dei miei favoriti. Con i cantautori ci sono nato, oltre che con il blues che ho ascoltato per la prima volta quando ancora mi trovavo in Ticino».
In quest’album che è un piacevole rimbalzare tra città del mondo – e che dall’Italia finisce in Gran Bretagna, e da Berna torna a Jackson, nel Mississippi, ambiente naturale di Fankhauser – rivive il sound dei Malaco Studios che fu di ‘I’ll be around’, album precedente, così come rivivono alcuni punti fermi della storia più recente del bluesman, da Dennis Walker, che firma nuovi brani, ad altro ‘entourage’ di Robert Cray come Richard Cousins, al basso. A curare la sezione fiati, Charles Rose, storico membro e attuale leader dei Muscle Shoals Horns, un’istituzione nel campo delle brass sections («Ha fatto cose favolose in questo disco»).
«La cosa che più amo di Dalla sarebbe in verità ‘L’anno che verrà’, ma è davvero difficile da cantare. Dovresti avere la sua voce per provare a fare un’interpretazione almeno rispettosa. Non mi sono azzardato. Ho scelto il piano B, che è un po’ più facile». Ma dietro alla scelta c’è anche una storia, che Philipp definisce «circolare», un intreccio di casualità e destino tutta da ascoltare: «Me ne andai dal Ticino nel 1983; poche settimane dopo la mia partenza feci l’autostop da Thun per andare al Montreux Jazz Festival e lì mi prese con sé una persona che soltanto anni dopo scoprii essere Hanery Amman (pianista della band Rumpelstilz, con Polo Hofer, ndr); al tempo non lo conoscevo e nemmeno conoscevo quella musica leggendaria della Svizzera interna; molti anni più tardi, nel 2012, avrei dovuto incontrare Lucio Dalla in persona dopo il suo concerto alla Kongresshaus di Zurigo, ma la notte prima Lucio morì a Montreux, una cosa che mi colpì nel profondo, perché Dalla non doveva morire, e comunque non a quell’età».
Nel dicembre del 2017, anche Amman morirà, e la sua famiglia chiederà a Fankhauser di ricordarlo nel tributo sulla Bundesplatz di Berna. E arriviamo al settembre 2018: «Per l’occasione scelsi ‘Chasch Mers Gloube’, una canzone con un testo molto bello», prima esperienza «coraggiosa» del bluesman con il dialetto bernese che compare in quest’ultimo disco alla traccia undici. La prima lingua materna (il berner deutsch), la seconda (l’italiano), Montreux, Amman, Dalla: «Tutto si lega, tutto inizia e si conclude, assolutamente».
“Sembra che il mondo stia girando più velocemente. A volte mi sento un po’ sopraffatto” dice Fankhauser nelle note che accompagnano il secondo singolo estratto da ‘Let life flow’, intitolato ‘The dark comes down’. E ad accompagnare il buio che scende, nel video girato a Bristol, Gran Bretagna, c’è un uomo spalle. Tutto il tempo. «Oggi che tutto deve avere un’immagine, oggi che tutti chiedono di sapere chi sei, che faccia hai, il batterista (Richard Spooner, ndr) ha avuto l’idea di ritrarre in questo modo il mondo che ruota attorno al protagonista, un tipo solitario che potrebbe essere chiunque».
A proposito del buio che scende, e a proposito di cantautori, il bluesman tira fuori un concetto del Vecchioni di ‘Io non appartengo più’: «Sai, si diventa un po’ più vecchi e alle volte mi sembra di non avere più molto a che fare con quello che sta succedendo. È davvero diverso da quando avevo vent’anni». Se proprio Fankhauser non ‘appartiene più’, almeno lo fa in un album il cui titolo è in piena antitesi con quello del singolo: «‘Let it flow’, sì, lasciala scorrere questa vita, è buono che accada». La vita che scorre come scorrono i fiumi, il Mississippi su tutti, «terra nella quale è nata la musica che suono, dove stanno le mie radici artistiche e dove per me ha sempre avuto un’importanza fondamentale tornare. Gli amici ai Malaco Studios mi aiutano a riprodurre quel suono di base, in modo vero e autentico».
A chiudere un album che esce in pieno periodo natalizio, ’Please come home for Christmas’, il Natale 1978 per gli Eagles al top della fama. «Fu una hit strepitosa che si ascoltava tanto anche in Ticino», racconta Philipp. «Molti anni dopo la sentii cantata da un pianista americano, Charles Brown. Mi dissi che era una splendida cover. In realtà era l’originale, perché è lui l’autore. Mi è sempre piaciuta e quando si è deciso che il disco sarebbe uscito il 13 dicembre, il pensiero è andato subito a quella canzone».
Stasera e domani, Fankhauser presenta ‘Let life flow’ in casa, a Rubigen, nel Canton Berna. In attesa di vederlo da queste parti – l’ultima volta era febbraio 2019, Teatro di Locarno – alcuni dettagli ‘tecnici’: «Per il tour precedente eravamo in undici, con tanto di fiati e backing vocals al seguito. Questa volta saremo in cinque. Non abbiamo più l’esigenza di riprodurre dal vivo cose come ‘Homeless’ (da ‘I’ll be around’, ndr.) e inoltre il quintetto è il formato che più amo, quello che ti dà la possibilità d’improvvisare, di cambiare gli arrangiamenti in modo rapido, che ti assicura una certa elasticità. Preferisco che la gente ci ascolti in cinque e quando ci ritrova su cd abbia la sorpresa di scoprire che esiste anche una versione più ricca, e non il contrario» (www.philippfankhauser.com).