Spettacoli

L’eroe della pedal steel guitar folgorato da Jimi Hendrix

Intervista a Roosevelt Collier, giovane musicista americano questa sera al Jazz Cat Club di Ascona col suo mix di gospel, blues, funk e rock

28 ottobre 2019
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Il concerto inaugurale della stagione 2019 del Jazz Cat Club propone – stasera alle 20.30 al Teatro del Gatto di Ascona, prenotazioni allo 078 733 66 12 – l’artista americano Roosevelt Collier, giovane virtuoso della pedal steel guitar, la cui musica è un mix di gospel, blues, funk e rock di grande impatto. Abbiamo scambiato due parole con lui.

Quando e come hai iniziato a suonare? Se non sbaglio hai iniziato in una band in cui militavano i tuoi zii e i tuoi cugini.

Ho iniziato a fare musica in chiesa e più precisamente nella chiesa della Casa di Dio a Perrine, nel Sud della Florida. Scoprii solo più tardi che proprio quella chiesa era l’epicentro di qualcosa di rivoluzionario: i miei zii e miei cugini infatti non erano solo degli ottimi interpreti di gospel e musica sacra, ma dei veri innovatori, che utilizzavano le pedal steel guitar in maniera così virtuosa da diventare un punto di riferimento. Sono insomma stati capaci di portare quello strumento così particolare e innovativo a un livello più alto, a delle nuove vette artistiche. A me è capitato esattamente quello che è successo anche a mio figlio Ezra ancora piccolissimo: una fortissima attrazione, e poi a tre anni sono salito sulla sedia e ho iniziato a suonare senza mai più voltarmi indietro…

Nel tuo album d’esordio del 2018 sei riuscito a creare un mix molto accattivate di blues, gospel, rock e funk dando vita a un paesaggio sonoro che per molti versi ricorda il lavoro di Jimi Hendrix. Quando ti sei avvicinato alla music di Hendrix e come sei riuscito ad adattarla al tuo strumento, la pedal steel guitar? 

Beh, la cosa è piuttosto curiosa: non avevo mai ascoltato nulla di Hendrix fino a quando, da adolescente, tutti cominciarono a dirmi: “Diamine, amico, lo sai che ricordi proprio questo tipo… Jimi Hendrix”. Fu allora che comprai “Bold As Love”, un disco che mi ha cambiato letteralmente la vita. Adesso la musica di Jimi non mi basta mai e anzi mi sono deciso a formare una band che rendesse finalmente l’idea che io avevo della musica di Jimi Hendrix, il modo in cui io la sento; con questa formazione abbiamo messo in piedi negli States un progetto che si chiama “Jimi Does Funk” che mi permette di rielaborare in chiave moderna il suo repertorio e di adattarlo al mio personale background.  

Hai collaborato con grandissimi artisti: dagli Allman Brothers a John Scofield fino al cantante e chitarrista australiano John Butler, giusto per citare alcuni nomi. Quale tra queste numerose esperienze ti ha arricchito e sorpreso maggiormente? E cosa hai in serbo per il futuro? 

Senza nulla togliere ai nomi che sono stati fatti, penso che di recente una delle più grandi sorprese sia venuta da una band chiamata Vulfpeck, un’incredibile aggregazione di giovani musicisti di cui fa parte il chitarrista Cory Wong. L’anno scorso hanno assistito a una mia esibizione ad un festival e subito dopo mi hanno invitato ad unirmi a loro sul palco; musicalmente la cosa ha funzionato ed è stata davvero sorprendente – il fatto di possedere un legame così forte ed intenso tra di loro gli consente di un’interazione e uno scambio musicale davvero interessante. Nel futuro? Beh, che dire, adoro letteralmente la Tedeschi Trucks Band. Sono un buon amico di Derek e Susan e ho suonato con loro decine di volte, ma ho sempre voglia di rifarlo e portare avanti la cosa. Adoro anche suonare con band al di fuori del mio genere, al di fuori della scena rock; suono con alcune jam band in giro per gli States che stanno sfornando delle idee e dei sound interessanti, gente come i Disco Biscuits e gli Odessa.

Continuiamo a parlare di sorprese: c’è stata una volta in cui il pubblico ti ha lasciato senza parole o ti ha trasmesso particolari emozioni? 

Come non ricordare il mio debutto europeo a Montreux. Salimmo sul palco e calò un silenzio tombale. Nessuno degli europei del pubblico aveva la benché minima idea di chi fossi. Ci trovavamo lì, su quel prestigioso palco, solo perché Quincy Jones dopo averci visto suonare si innamorò di noi, ma nessuno, proprio nessuno, sapeva come fossimo. L’acustica di quella sala era incredibile tanto che il silenzio prima che attaccassimo a suonare risultava assordante; noi ci guardavamo l’un l’altro come per dirci “Sveglia, non ha senso tutto ciò!”. Verso la fine del concerto anche le persone più anziane presenti tra il pubblico erano passate dalla nostra parte. Ballavano vicino alle poltrone lungo il corridoio e dopo lo spettacolo ci coprirono di abbracci e di tanto calore e sentimenti positivi. Quello è stato il mio primo contatto in assoluto con il pubblico europeo ed è stato amore a prima vista. Mi hanno conquistato e io li ho conquistati.

Cosa ci puoi dire del progetto di world music denominato Bokanté?

Si tratta di una creatura di Michael League, una sua creatura al 110%; è lui che ci guida, è lui il nostro leader. Si tratta di qualcosa di speciale, sia la musica che la band, qualcosa di molto avanti rispetto a tutto il resto che puoi ascoltare, un qualcosa che però è ON TIME, arriva al momento giusto e col ritmo giusto. Per me è un onore fare parte di questo progetto, ma posso dirti che tutti nella band sono entusiasti di suonare… non solo per il pubblico, ma anche gli uni per gli altri. Michael ci ha scelto uno ad uno così da mettere in piedi una squadra fantastica. Siamo pronti a vincere in ogni momento un contest per band, sai di quelli dove la concorrenza è più forte. I Bokanté filano via come una macchina sportiva europea: siamo belli e possiamo andare ben oltre i limiti di velocità! Adoro tutti in questa band!