È in tutte le sale l’epopea dei Queen, dagli esordi fino al Live Aid: pur tra incongruenze e omissioni, non si può restarne insensibili
Gli ingredienti ci sono tutti: una band da centinaia di milioni di dischi, la (o parte della) colonna sonora del pianeta Terra, la quintessenza del performer e pure il regista che di cognome fa ‘cantante’ (Bryan Singer). Ci si metta pure l'anteprima al Cinema Teatro di Mendrisio, anno 1908, con architetture alla ‘Metropolis’ che pare di entrare nel videoclip di ‘Radio Ga Ga’.
Definito, alternativamente, come la storia di Freddie Mercury o quella dei Queen, ‘Bohemian Rhapsody’ è in tutte le sale. E comunque lo si voglia definire, c’è Freddie Mercury davanti e non troppo defilati gli altri, esattamente come sul palco. Il film non è tutta la storia dei Queen, ma l’arco di tempo che va da quando il timido Farrokh Bulsara – nato a Zanzibar, alle prese con la difficile integrazione nella società britannica e con l’arcata dentaria problematica – incontra i futuri Queen Brian May e Roger Taylor, fino al Live Aid di Londra, megaconcerto del 1985 voluto da Bob Geldof e Midge Ure in favore dell’Africa affamata, del quale la performance dei Queen è ricordata come il momento più intenso.
Risolta la credibilità visiva del protagonista – Rami Malek, che di Mercury è attore/clone – anche gli altri Queen brillano per somiglianza: come John Deacon interpretato da Joe Mazzello, che dell’ex bassista ritiratosi presto a più pacifica vita nella periferia londinese riproduce bene le smorfie; credibili e ‘a tempo’ sono anche Gwilym Lee con la Red Special e i riccioli di Brian May e Ben Hardy, biondo e ‘rullante’ come Roger Taylor.
Nel suo essere una storia di musicisti, il film non tradisce, in barba ad alcune pellicole che hanno celebrato i divi dello sport con attori che non sapevano come si prendesse in mano una racchetta o come calciare un pallone di pieno collo. I Queen del film, invece, sanno tenere in mano gli strumenti, in nome della piena resa emotiva di una storia tradita solo da alcune incongruenze di tempo: su tutte, il Mercury che annuncia ai compagni la sua malattia prima di Live Aid, dunque due anni in anticipo sulla verità storica.
... se Sacha Baron Cohen non avesse rifiutato la parte di Mercury? Il comico britannico, nel motivare, sostenne che May – supervisore del progetto con Taylor – volesse una seconda metà di film incentrata su come la band fosse riuscita a sopravvivere alla morte del frontman. Taylor rispose che non volevano che il ruolo diventasse un ‘joke’ (divertimento), May che ‘Borat’ sarebbe stato troppo riconoscibile.
Viene da chiedersi se Baron Cohen non avrebbe reso in pieno la personalità edonistica di Mercury e tutti gli eccessi accuratamente relegati sullo sfondo o racchiusi nello stereotipo del camionista barbuto che, nell’infilare il bagno pubblico, incrocia lo sguardo del cantante, hollywoodiana presa di coscienza della sua bisessualità. Tornando all’influenza di May e Taylor sul progetto, appare comunque stucchevole il puntualizzare nel film le paternità dei brani, dalla genesi di ‘We will rock you’ (scritta da May) ad ‘Another one bites the dust’ (di Deacon).
Ripresa in coda, a concludere il film con una riappacificazione avvenuta in realtà molto prima, la ricostruzione dei Queen al Live Aid rasenta la perfezione.
In verità, pur nella fedele replica della struttura demolita nel 2003 e interamente ricostruita, sulle note di ‘Hammer to fall’ lo stadio di Wembley sembra contenere più dei pellegrini della Mecca, in una dilatazione che rende la celebrazione rock un tantino ridondante. Sarà che Singer ha diretto ‘X-Men’ e ‘Superman’, sarà che mamma Mercury davanti alla tv ricorda Zia May (quella di Peter Parker, non quella del chitarrista), sarà che anche qui c’è una Mary come in ‘Spiderman’ – di cognome fa Austin, è l’ex moglie-musa di Mercury, ha ereditato una fortuna che, dice oggi quella vera, le ha procurato solo problemi (la interpreta l’incantevole Lucy Boynton) – saranno pure suggestioni, dicevamo: eppure, quando parte ‘We are the champions’, col groppone in gola che già la canzone di per sé produce e che soltanto Hollywood può amplificare, nessuno si sarebbe scandalizzato se il frontman avesse spiccato il volo, salendo fino in orbita per girare in senso antiorario a riportare indietro il tempo, togliendoci finalmente la curiosità su quale altro capolavoro, con Mercury in vita, sarebbe seguito all’immortale ‘Innuendo’.