Spettacoli

'Magia, mistero, misticismo': Branduardi a Locarno

Intervista al musicista italiano, che, 'Camminando camminando', sarà al Teatro di Locarno sabato primo dicembre.

26 novembre 2018
|

C’era una volta quel tempo in cui in vetta alle classifiche c'era una filastrocca che durava ben 5 minuti e 22 secondi. Il termine ‘World music’ non era ancora stato coniato e dagli altoparlanti dei supermercati non usciva musica in qualità da radioamatore, ma signorine che declamavano le offerte speciali, o al massimo “La mamma aspetta il piccolo Mario al box informazioni”. Quella ‘filastrocca’ (di portata epocale) s’intitolava ‘Alla fiera dell’est’, una cosa ‘molto avanti’, si direbbe oggi. O molto indietro, se si pensa a dove affondino le radici recuperate da Angelo Branduardi, caposcuola che giunge al Teatro di Locarno ‘Camminando camminando’, col nome di un album dal vivo uscito nel ’96 e che da allora fornisce il titolo a un percorso mai interrotto, giunto sino a noi. Branduardi dal vivo, la forma che lui dice essere l’unica carta d’identità del musicista.

Il concerto è previsto sabato primo dicembre alle 20.30, in forma di duo con Fabio Valdemarin. Organizza GC Events, informazioni e biglietti su www.gcevents.ch, www.ticketcorner.ch. Alla ‘Regione’, l’artista italiano ricorda Paul Buckmaster (arrangiatore del primo Elton John cui si deve anche il primo Branduardi) a un anno dalla sua morte, la sua Genova a tre mesi dall’ultima sciagura e Zurigo, a un mese dall’ultimo concerto in Svizzera.

‘Camminando camminando,’ sei arrivato a Locarno, in una forma del tutto particolare...

Ho più di un repertorio. Uno da ‘hit’, il duo e un altro di musica antica. Un po’ di quest’ultima ci sarà anche a Locarno. Veniamo da una tournée europea, in altra formazione, ho uno splendido ricordo del concerto di Zurigo. Il duo è un cammino in solitaria per raggiungere vette più alte, basato sul “meno c’è più c’è”, una specie di magia, di mistero, quasi misticismo. E di esoterismo. È un tentativo di vedere al di là della porta chiusa, di levitare dal terreno di almeno un metro. Chissà se a Locarno ci saremo riusciti.

Siamo in epoca di ritorno alle origini, musicalmente parlando. Il recupero del territorio, delle tradizioni, cosa che tu hai avviato, prima di tutti...

Questo è bello, perché il recupero della tradizione significa fare un passo indietro per farne due avanti. Mi vengono in mente le radici profonde che non gelano, quelle di Tolkien. Per cui, se non diventa sciovinismo, uno scavare all’interno del sé e per sé, come direbbe Hegel, può essere cosa premiante e profonda.

Mi stupisce sempre, scorrendo le classificazioni dello streaming, leggere ‘pop’ sotto l’album ‘Alla fiera dell’est.’...

Io, nel calderone pop, proprio non ci sto. Ripeto una frase geniale che scrisse tempo fa il critico Marco Mangiarotti: “La musica di Branduardi è come l’aglio: unico, inconfondibile, si ama o si odia”. Ed è giusto che sia così. Gli autori, i grandi musicisti, le grandi cantanti liriche hanno sempre diviso il pubblico. Non ci può essere un artista per tutte le stagioni, non sarebbe un vero artista, ma una specie di faro la cui luce poi si affievolisce. Io credo di seguire una via che è la mia, che si dice sia unica e che, se me lo chiedi, non so davvero dirti di cosa sia fatta.

Una via che contempla l’azzardo...

Sì. Pensare di tenere un palco per quasi due ore con suoni eterei, silenzi, parole non gridate, non è una cosa facile. Va completamente contro l’oggi, e non è nemmeno ieri. Io credo sia domani. Così come gli 8 dischi di ‘Futuro antico’, un altro passo indietro per farne due avanti. Questa, almeno, è la mia intenzione.

Un anno fa se ne andava Paul Buckmaster: un tuo ricordo personale?

Gli devo tutto. Ero lì, latitante in questa casa discografica seduto al bar, aspettando cose che non arrivavano. So che sembra una favola, ma è così: presi l’indirizzo da Billboard, gli scrissi una lettera molto lunga, spedita insieme a una cassetta. Paul telefonò in Rca 15 giorni dopo. Disse: “Sono Paul Buckmaster”. Gli risposero: “Sì, e io sono Napoleone”.

L’intesa nacque in studio?

No. Nel senso che non fu subito un’intesa musicale. La cosa incredibile è che dopo 10 minuti di telefonata mi resi conto che non aveva idea di cosa ci fosse su quella cassetta. Disse: “Ho capito dalle parole che tu puoi cantare per gli uomini e per gli uccelli”. Era stato convinto da quello che avevo scritto, non dalla musica, che non aveva nemmeno ascoltato.

Ti prese “a scatola chiusa”...

Di fronte a Paul Buckmaster tutti si in- chinavano. Ecco come ho fatto il primo disco. Il disco precedente era stato scartato, un album molto bello che già conteneva ‘Confessioni di un malandrino’ e alcune delle cose mie più note. Lo avevamo realizzato io e Maurizio Fabrizio, ma non eravamo né abbastanza potenti, né abbastanza popolari. Con Paul siamo stati ancor meno popolari, ma lui mi ha insegnato l’Abc della composizione, la scelta dei silenzi, i tempi. Lo ricordo con amore.

Hai dichiarato che il concerto è la verità, distingue il musicista da chi si chiude nel perfezionismo dello studio di registrazione. Non senti, comunque, bisogno di studio?

Sì, sto cominciando, sto facendo. Mi sembrava di non avere la minima voglia e invece mi sono venute in mente un paio di cose sulle quali sto lavorando e che probabilmente vedranno la luce. Sempre che lo meritino. Sto seguendo una cosa strana e folle, vediamo dove porterà.

Per quanto la tua carriera inizi a Milano, sei genovese. Non posso non chiederti della tua città natale...

Se ti riferisci ai disagi, non è cosa di oggi. Ricordo l’alluvione che colpì il meraviglioso cimitero di Staglieno, quando sul Bisagno si videro galleggiare le bare. Ero un bimbo (era il 7 ottobre 1970, ndr). Ci sono sempre stati problemi a Genova. Io, poi, abitavo nel porto, ero più disagiato degli altri. Quando accadono cose di questo tipo, non so perché, ci sono sempre di mezzo Genova e la Liguria. Ma sono cose che, credo, vadano studiate a livello di meteorologia, di riscaldamento globale, di scemi che non firmano (il riferimento affettuoso è a Donald Trump, ndr). Aggiungici il terreno terrazzato che non viene più pulito, o abbandonato perché costa troppo coltivarlo. E la cementificazione, che in passato chiamavano addirittura “rapallizzazione”...

Concludo. Musicalmente, c’è ancora qualcosa che ti affascina?

Ascolto ancora tanta musica. Ci sono artisti che ho adorato alla follia, primo fra tutti Cat Stevens, cui molto chiaramente m’ispiravo, per non dire copiavo. Amo Wagner, un uomo orrendo, ma il più grande musicista di sempre. Amo la musica americana, per la spazialità che viene da quelle terre, e per quel po’ di malinconico che mi piace tanto, prendi Springsteen. La musica europea, invece, è un po’ paranoica. Viviamo uno sopra l’altro e, come dimostrano gli esperimenti sui topi, questo non va affatto bene...