Il 17 giugno del 1983 iniziava il calvario giudiziario di Enzo Tortora, vittima dell’odio social quando ancora i social non c’erano
Gli italiani del 1983 avrebbero mai potuto credere che Pippo Baudo spacciasse droga nel mondo dello spettacolo per conto di Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata? Men che meno si sarebbero bevuti che ne avesse la faccia per farlo il pacioso Corrado Mantoni, un amico di famiglia più che un presentatore. Quanto a Mike Bongiorno, la giuria di un tribunale avrebbe mai potuto vedere in lui – parafrasando Falcone – una mente raffinatissima? Così raffinata da essere riconosciuto “socialmente cinico” o addirittura “un cinico mercante di morte”? Per costruire l’impostore perfetto, nel 1983, serviva una mente davvero raffinata, un uomo di cultura e di spettacolo talmente integerrimo da diventare un giorno il portatore sano della peggiore delle infamie; un uomo dalla postura e dall’eloquio impeccabili, seducente, dal riscontro sufficientemente nazionalpopolare ma colto, molto colto, anche troppo; un uomo non immediatamente simpatico (per alcuni mai) e che non ci teneva affatto a risultare tale. Un uomo sufficientemente libero da essere in rotta con l’azienda di Stato, libero di aprire e chiudere collaborazioni con i media e di tornare all’ovile per fare “audience”, oggi “share”.
È la mattina del 17 giugno del 1983. Enzo Tortora è fresco di rinnovo contrattuale per il suo “mercato pazzerello dove trovi questo e quello”, come dice la sigla scritta e suonata da Lino Patruno. ‘Portobello’ è un programma televisivo-chioccia, che in forma di singole rubriche già porta in grembo i futuri ‘Chi l’ha visto?’, ‘Stranamore’, ‘Carràmba che sorpresa’, ‘I cervelloni’, ‘C’è posta per te’ e addirittura ‘Uomini e donne’.
L’Italia viene da sei stagioni di ricongiungimenti familiari (la rubrica ‘Dove sei?’), di cuori solitari in cerca di anima gemella (‘Fiori d’arancio’) e soprattutto di inventori, uno dei quali ancora spopola sui siti di meteorologia: è il milanese Piero Diacono, che nel gennaio del 1982 spiega in tv come risolvere il problema della nebbia nella Pianura Padana (radendo al suolo il monte Turchino, così da ‘arieggiare’ la pianura con i venti del Mar Tirreno). Da sei anni, tormentone sano di ‘Portobello’ – programma garbato come il suo conduttore, e dalla media di ascolti tra i venti e i venticinque milioni di spettatori – era stato il tentativo di far parlare il pappagallo-mascotte della trasmissione, facendogli dire il titolo. Ci era riuscita da poco l’attrice Paola Borboni, e il montepremi era andato in beneficenza.
Enzo Tortora viene prelevato prima dell’alba da una stanza dell’Hotel Plaza di Roma. Abita a Milano, ma alloggia nella Capitale perché sta registrando un talk-show con Pippo Baudo (‘Italia parla’); gli agenti lo conducono verso un non lontano comando dei Carabinieri; è accusato di associazione per delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga e armi (art. 416 bis); viene trattenuto fino all’ora di pranzo, nonostante un malore; a mezzogiorno, seguendo una regola tanto cara alla polizia statunitense sin dai tempi di Lee Harvey Oswald, il presentatore ammanettato viene fatto sfilare davanti ai giornalisti per il tratto di strada che divide il comando dei Carabinieri dal cellulare della Polizia che lo porterà nel carcere di Regina Coeli.
“Due agenti lo tengono per le braccia, come se fosse un pericoloso malvivente a rischio di fuga, non il 50enne cardiopatico che conosco. La gente lo insulta, alcuni gli sputano addosso. Eppure deve essere lui, lo dice il telegiornale”. Questo pensa Gaia, la figlia più piccola, che nel 1983 ha quattordici anni e ha appena dato l’esame di terza media; è davanti alla tv quando papà Enzo è ufficialmente diventato un pericolo pubblico. L’assurdità sarà contenuta, tempo dopo, nelle 267 pagine della sentenza emessa dal Tribunale di Napoli, che chiederà per lui dieci anni e sei mesi di galera senza nemmeno mezza prova.
“Si chiarirà tutto”, “è questione di ore”, dicono a Gaia; ne sono convinte anche la madre e la sorella Silvia; ne è sicuro anche Piero Angela, legato da una trentennale amicizia con papà, uno dei primi a starle vicino. La questione di ore, per Enzo Tortora, sarebbe diventata una questione di anni: quattro, prima dell’assoluzione, per oltre mille giorni agli arresti, suddivisi in sette mesi di carcere tra Roma e Bergamo e quattordici mesi ai domiciliari nella sua casa di Milano.
Il ‘Caso Tortora’, simbolo di malagiustizia, non è la macchinazione di un’intelligenza superiore. Succede che quell’anno, in un covo di camorristi, la Polizia trovi una rubrica telefonica appartenente a tale Giuseppe Puca, affiliato di Cutolo; sopra vi sono scritti due numeri di tale Enzo Tortona, che in Questura qualcuno storpia in “Enzo Tortora”, che non è un ‘tale’ ma ‘quel’ Enzo Tortora; agli inquirenti napoletani, i pentiti Giovanni Pandico (non prima del quarto interrogatorio) e Pasquale Barra (non prima del quattordicesimo) confermano che il tizio che spaccia la droga è proprio il presentatore; Pandico ha un passato da calunniatore, ma ha anche tentato di eliminare il padre, la madre e la fidanzata; Barra è il killer di Francis Turatello, e si vanta di avere addentato le sue viscere.
“Nello spazio di poche ero passata dalle bambole a Regina Coeli”. Gaia Tortora, oggi giornalista e conduttrice televisiva, ha affidato il ricordo di quei momenti a un libro intitolato ‘Testa alta, e avanti’, il motto del padre diventato anche il suo a ogni cedimento sopraggiunto durante il calvario giudiziario: “Ogni volta che visito un carcere – scrive – il rimbombo dei chiavistelli mi angoscia, ma molti anni fa mi sono educata a pensare che se solo fossi stata dura abbastanza, sarei sopravvissuta. Quindi avanti tutta, a testa alta, in nome di mio padre”.
Ufficializzato ‘mostro’ dal giudizio sommario e dal metodo lombrosiano tipici dei social, anche se i social nel 1983 non ci sono ancora, in carcere a Roma c’è un uomo pericoloso al massimo per la schiettezza, le cui parole più pesanti potevano essere state “la tv è un jet colossale pilotato da un gruppo di boy-scout che si divertono a giocare con i comandi”, quelle che nel 1969 lo fecero allontanare dalla Rai per l’incapacità di stemperare, ma anche perché convinto “che la libertà non avesse prezzo, prima di tutto quella intellettuale”, scrive Gaia. La Rai l’allontanò e lui vi tornò, perché la riteneva la propria casa. “Perché era sì ribelle, ma anche un aziendalista”. In carcere a Roma, a scrivere lettere rassicuranti alla figlia adolescente, c’è un uomo dalla vita ‘standard’, già costretto dal cuore a mangiar vegetariano e ad andare a letto molto prima della mezzanotte; un uomo al quale il successo aveva permesso di vivere in una zona residenziale e di portare la famiglia in vacanza a Forte dei Marmi, ma il motorino, la ragazzina, se l’era comperato a rate.
“Eravamo una famiglia normale. Per certi versi noiosa”, scrive ancora Gaia, privata di un rapporto padre-figlia che gli impegni lavorativi del primo avevano impedito, ma che si stava finalmente realizzando: “In qualche modo mio padre è sempre stato un’assenza (…). Nel momento in cui il nostro rapporto avrebbe potuto cambiare forma, evolversi, basarsi su altro rispetto ai gesti di cura dell’adulto nei confronti della bambina, è stato arrestato (…) Poi è stato liberato e dichiarato innocente, ma non era più lui”.
“Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo “grazie” a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so, anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta” (Enzo Tortora, 20 febbraio 1987)
Il 15 settembre del 1986, Enzo Tortora è assolto con formula piena da tutte le accuse. Torna in tv nel febbraio dell’87 e prova a riprendere il filo del discorso; prima di morire, il 18 maggio dell’anno dopo, tramite la legge Vassalli approvata anche grazie al suo battersi per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, cita per danni i magistrati napoletani; chiede allo Stato cento miliardi di lire di risarcimento da devolvere a una fondazione che si occupi delle vittime di malagiustizia, ma non avrà una lira, perché la legge non è retroattiva. Porta con sé nella tomba i propri occhialini d’oro e una copia di ‘Storia della colonna infame’, saggio del Manzoni dedicato ai cittadini vittime di soprusi durante la peste del 1630.
“Se dovessi raccogliere tutte le calunnie che ho letto sul conto di mio padre – commenta Gaia – non mi basterebbe questo libro. Ma non è questo lo scopo”. Di Camilla Cederna riporta tristissimi virgolettati; del Giorno riporta l’accusa al padre di aver “retto bene la parte dell’innocente”; del Tempo, l’analisi del linguaggio del corpo del “personaggio del piccolo schermo amato dalle massaie”, e la contestazione – il giorno dell’arresto, coi giornalisti davanti – di essersi risparmiato “le reazioni che gli erano solite”, una specie di ammissione di colpevolezza.
Nei giorni della detenzione, di tanta voce mediatica sono in pochi a denunciare la farsa: Piero Angela, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Leonardo Sciascia e Vittorio Feltri, che per primo legge le carte e fa quello che nessuno aveva mai fatto: chiama al telefono tale Enzo Tortona, e gli risponde un signore che parla dialetto calabrese; sempre Feltri controlla dove si trovasse il pentito Gianni Melluso, unitosi al coro dei pentiti (che Tortora definiva “la Nazionale del pentitismo”) per giurare di aver consegnato al presentatore una scatola di scarpe piena di droga: non avrebbe mai potuto farlo, perché nei giorni in cui si sarebbe svolta la consegna, Melluso era in carcere a Campobasso.
‘Testa alta, e avanti’ è un libro di speranza: “Quando mi viene chiesto se credo nella giustizia – scrive Gaia Tortora – rispondo subito di sì, come fanno le tante vittime di malagiustizia ed errori giudiziari che ho intervistato”, anche se quasi mai ricevono le scuse (sono citati i casi di Lelio Luttazzi e Walter Chiari). ‘Testa alta, e avanti’ è anche un invito alla buona educazione rivolto alla categoria (“talvolta noi giornalisti corriamo il rischio di perdere il senso delle proporzioni, di dimenticarci che le nostre parole hanno un peso”). ‘Testa alta, e avanti’ è un libro su come guarire dal dolore: “Potevo drogarmi, ho scelto la lucidità”, ovvero la dote di ascoltare il prossimo e di esercitare il dubbio, trovando nel giornalismo la cura.