Un volume appena pubblicato raccoglie testimonianze e destini del Movimento giovanile progressista
"Era come una sorta di risveglio, del quale non ci rendevamo conto nel momento in cui l’abbiamo vissuto". Parole d’un vecchio militante del Movimento giovanile progressista (Mgp), formazione della sinistra autonoma ticinese che vivacizzò la scena politica a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Parole confluite – insieme a numerose altre testimonianze – tra le pagine di ‘Inseguendo la rivoluzione’, il volume che la fondazione Pellegrini Canevascini ha appena dedicato all’Mgp e alla sua successiva incarnazione, Lotta di classe. Un’opera della "collana rossa" che l’autore – il giovane storico Giacomo Müller – presenterà domani alle 20 alla Casa del Popolo di Bellinzona (interverranno Bruno Strozzi e Vincenzo Di Dio, due ex militanti, e Franco Cavalli di ForumAlternativo). Ne parliamo con Danilo Baratti, membro della Fondazione che insieme a Müller ha curato l’edizione.
Dagli scout al marxismo-leninismo, dai sentieri di montagna all’operaismo (in un cantone senza operai, se non ‘d’importazione’). La storia dell’Mgp sembra spiazzante, anche se in fondo somiglia a quella di molti movimenti della ‘New Left’ europea. Come ebbe inizio il tutto?
L’Mgp nacque in seno a uno specifico gruppo di scout liberali, il clan Rover dell’Aget di Bellinzona. Qui sorsero i primi confronti e sensibilità politiche. Da lì provengono leader come Giorgio Bellini, Renato Berta ed Enrico Furger, che poi porteranno le loro rivendicazioni nelle scuole e vedranno allargarsi il gruppo. A quel punto però il Movimento si emanciperà dalle sue origini, sposando il marxismo.
Uno dei militanti intervistati nel libro ricorda: "Andavamo coi cartelli ‘I vietcong a Saigon’, che non era una buona idea ma comunque è così. (...) Ci siamo accorti a un certo punto che i giovani seguivano noi soprattutto, cioè c’era bisogno di radicalizzazione in quel senso lì". All’apice della sua popolarità, poco prima del declino degli anni Settanta, l’Mgp contava una ventina di quadri e riusciva a mobilitare qualche centinaio di simpatizzanti. Cosa facevano?
C’erano naturalmente la mobilitazione, le manifestazioni e i dibattiti, in cui temi più internazionali come la guerra in Vietnam si intersecavano con le esigenze locali di studenti e apprendisti. Ricordiamo d’altronde che il Ticino sarà per certi versi un precursore del ’68 – si pensi in particolare all’occupazione della Magistrale di Locarno nel marzo di quell’anno – nel rivendicare una società più giusta. Un’esperienza che naturalmente si accosta a quella delle altre regioni svizzere e dell’Europa in generale.
L’Mgp sposò presto l’operaismo, ovvero l’idea – che in Italia si incarnava in formazioni come Potere Operaio – che il percorso rivoluzionario dovesse nascere dalle fabbriche, e che la vicinanza degli studenti al proletariato fosse fondamentale per rovesciare il capitalismo. Anche con la forza.
Non, però, la forza intesa come terrorismo. In Ticino non vi fu mai l’involuzione armata che si vide in Italia con una frangia di Potere Operaio: il confronto rimaneva inteso come lotta di classe nel senso più ampio, il linguaggio col senno di poi poteva a volte apparire violento, ma non vi furono sconfinamenti in quella direzione.
L’attività dell’Mgp appare marcatamente pubblicistica: com’era tipico in quei tempi si davano alle stampe volantini, giornali, quaderni ("non si può più improvvisare, spontaneismo finito, ora è tutta una roba di quaderni…" notava con una certa ironia Giorgio Gaber). A che pro?
Contava la volontà di organizzare, di studiare, di capire la realtà con rigore analitico per poterla cambiare. Un approccio che è sopravvissuto fino a oggi in vari partiti, movimenti, atenei che hanno poi accolto gli eredi di quegli anni. Va però detto che parecchi militanti sono anche andati, almeno per qualche tempo, a lavorare in fabbrica.
Ciascuno però andò per la sua strada, decretando l’evaporazione del movimento dopo una decina d’anni: nel 1975 quel capitolo si poteva già considerare chiuso. Cos’era successo?
Si sentì certamente l’onda del riflusso, del ritorno al privato, oltre alla cappa degli anni di piombo. Molti si erano spostati nelle città, anche appunto per condividere direttamente l’esperienza operaia, ma finendo per perdersi un po’ di vista. Si dissolse l’organizzazione: l’unico che avrebbe resistito, tra gli esperimenti di quegli anni, si sarebbe dimostrato il Partito socialista autonomo (1969-1992, ndr) poi confluito nel Ps. Ma rimase un’eredità di persone e di idee.