Il dopo-Salvini, l’attivismo ambientale al nord e il ‘no’ a Frontex al centro del dibattito prima di ChiassoLetteraria
"Sbruffoncella che fa politica sulla pelle di qualche decina di migranti", "criminale tedesca", "ricca e viziata comunista". Era il giugno del 2019, la pandemia e la guerra in Europa ancora non c’erano. Fascistelli e odiatori seriali dovevano fare con quel che avevano, prendendosela coi migranti che attraversano il Mediterraneo in cerca di salvezza. Il loro capocurva in Italia – un tizio che quando non si sfondava di mojito al Papeete stava a far caciara al Viminale, ministro dell’Interno di uno dei governi più sciagurati e razzisti della storia repubblicana – utilizzava questi epiteti per attaccare Carola Rackete, ragazza tedesca classe 1988, cinque lingue, due lauree e un diploma da ufficiale nautico, un passato da guida turistica in Kamchatka, ricercatrice ambientale in Antartide e salvatrice di uccellini per un’associazione francese, allora al timone di Sea Watch 3, imbarcazione di un’Ong che soccorre i migranti in mare. Il bersaglio perfetto per la furia sovranista, insomma.
Ecco allora il ‘Capitano’ – così si faceva chiamare Matteo Salvini – contro la capitana, colpevole di aver forzato un blocco di motovedette della Guardia di finanza per attraccare a Lampedusa e consegnare a salvezza e dignità 42 migranti. "Speronamento", si gridò allora (fu semmai un affiancamento laterale, sia pure pericoloso). "Atto di guerra" lo chiamò l’autore del nefasto Decreto sicurezza, e "assassina" Rackete, subito arrestata e destinata a diventare l’idolo della sinistra italiana, in una di quelle sudate polemiche estive nelle quali ai leghisti di Milano Marittima risponde la Capalbio più progressista, opposti bagnasciuga in una gara tra veleno e melassa. Col rischio di ridurre una persona coraggiosa e determinata a stereotipo nel quale specchiare rispettivamente efferato risentimento e burbanzoso paternalismo.
Carola Rackete sarà poi assolta da tutti i capi d’imputazione, alcuni dei quali avevano del pittoresco: violenza e rifiuto a nave da guerra, accanto alla più banale resistenza a pubblico ufficiale e allo ‘scontato’ favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. "Ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare", ha tagliato corto lo scorso dicembre il Giudice per le indagini preliminari di Agrigento, dopo che l’ultradestra aveva criticato la ‘crucca coi rasta’ perfino per essere andata in udienza senza reggiseno ("Sfrontatezza senza limiti" titolò Libero, dopo che la poveretta era già stata sbertucciata per non essersi depilata le ascelle; "un po’ di decenza in più in un luogo pubblico non avrebbe guastato", s’indignò il cronista, senza che gli paresse ben più indecente posare sguardo e penna su seni altrui).
Salvini, lui, sappiamo che fine ha fatto: dopo il governo coi grillini e il tentato ‘golpe del Mojito’ è scivolato in un limbo dal quale lo ha strappato solo una figuraccia, quella del sindaco polacco che gli sventola davanti una maglietta per smascherarlo come lacchè di Putin. Invece Rackete – o meglio: Carola, come la chiamava con falsa intimità la pubblicistica progressista – che fine ha fatto? E come vive, ora che certi media hanno trovato altri protagonisti da sottoporre ai loro sguardi lubrichi?
È lei stessa a raccontarcelo in previsione dell’incontro col pubblico di oggi, alle 13 al Cinema Teatro di Chiasso. Tema dell’incontro, e sottotema di quei ‘Porti’ che fanno da Leitmotiv all’edizione in corso di ChiassoLetteraria: ‘Il mondo che vogliamo e quello che non vogliamo’ (‘Il mondo che vogliamo’ è anche il titolo del libro pubblicato da Rackete nel 2019, un instant book dedicato "a tutte le vittime dell’obbedienza civile" il cui ricavato è stato devoluto in beneficenza). Un’occasione per sentire la voce di chi crede che «chi ha visto certe ingiustizie e ne ha la possibilità, ha il dovere di partecipare al loro superamento».
Anzitutto – ci spiega in conferenza stampa –, «penso che il personaggio mediatico, o meglio, teatrale che mi è stato cucito addosso al momento dell’arresto abbia poco a che fare con me come persona, ma d’altronde credo che questo sia il caso un po’ per chiunque si trovi sotto i riflettori. Ho una laurea in protezione ambientale e non sono certo il tipo che entrando da qualche parte si presenta come ‘capitana’», ci spiega con tono paziente e un po’ timido. «Ma credo che i media fossero interessati a quello: la figura di una donna-capitano in un mondo maschile». E sì che «ci sono molte bravissime capitane che amano il loro lavoro, se volete ve le presento. Sfortunatamente io non sono una di loro: avevo già pensato di abbandonare la professione per dedicarmi al clima e alla natura. Mi è anche dispiaciuto che questa figura bidimensionale abbia attirato tanta attenzione, mentre chi è davvero esperto di migrazioni o le ha vissute sulla sua pelle fatica a trovare spazio».
Oggi Rackete ha lasciato il Mediterraneo, si è spostata a nord della Svezia e offre supporto a un gruppo di Sami – quelli che con nome ‘coloniale’ si chiamerebbero Lapponi – «alle prese con la combinazione di cambiamento climatico, disboscamento ed estrazione mineraria intensiva». È su queste cause, all’incrocio tra diritti indigeni e difesa dell’ambiente, che cerca di attirare l’attenzione anche attraverso la sua testimonianza, invocando un cambio di paradigma che sposti il boccino del potere dai grandi interessi economici «ai popoli e ai loro rappresentanti, per applicare un nuovo modello di sviluppo, non più basato sulla crescita e sul prodotto interno lordo senza attenzione alle emissioni e alla biosfera». Un modello che combini «giustizia sociale e climatica».
In questo senso Rackete ne ha per tutti, non solo per i colossi del petrolio e della finanza, ma anche per le grandi organizzazioni non governative coinvolte nella tutela dell’ambiente. «Da inchieste giornalistiche sappiamo che alcune di queste organizzazioni hanno guardato dall’altra parte di fronte a importanti violazioni dei diritti umani delle popolazioni indigene» nei territori loro affidati: «Violenze, torture, omicidi». In altri casi «sono state coinvolte in episodi di ‘greenwashing’, ad esempio mascherando il reale impatto ambientale delle emissioni di grandi società dell’aeronautica e del settore dei carburanti fossili».
L’invito, dunque, è a ripensare «in modo sociale e democratico» anche la lotta per l’ambiente, garantendo i diritti territoriali di ciascun popolo. Anche perché, ricorda Rackete, «sappiamo bene che il cambiamento climatico è una causa sempre più importante di migrazione, e il 90% delle emissioni è causato dai Paesi del Nord sviluppato. La gente non lascia casa sua se non vi è costretta», ma a volte è proprio l’impossibilità di affidarsi anche alla più elementare agricoltura di sussistenza che costringe alla fuga.
Qui il cerchio si chiude, il tema della migrazione che era uscito dalla porta – insieme a Salvini – rientra dalla finestra, ma stavolta la discussione riparte dalla crisi più recente, quella dei rifugiati ucraini: «Credo che quanto si sta facendo per loro mostri cosa si può fare anche per tutti gli altri migranti. In fondo gli statuti garantiti agli ucraini esistono da tempo, e anche i siriani fuggono dalle bombe russe. Il problema è che ancora una volta emerge un razzismo strutturale, che impedisce di accordare gli stessi diritti ad altre persone, magari nere, alle quali non spetta neppure lo stesso livello di indignazione pubblica».
Se l’auspicio è che questa esperienza ci insegni qualcosa in più su come trattare chi sfida la morte attraversando il Mediterraneo o affrontando le rotte balcaniche, la critica di Rackete investe anzitutto l’Europa e le sue istituzioni. A partire da Frontex – l’organismo che assiste operativamente gli Stati dell’area Schengen nella protezione delle frontiere esterne –, dato che domenica si chiude la votazione sul supporto svizzero: «Ho sostenuto le associazioni che fanno campagna per il no, perché l’unico modo per impedire gli abusi sui migranti è disfarsi di Frontex. C’è chi si illude di poterla riformare facendone parte, ma non funziona così: l’agenzia non è sottoposta neppure al controllo di Parlamento e Commissione europea, risponde solo al suo consiglio di amministrazione. Neppure la Germania ha voce in capitolo, tantomeno la Svizzera». Rackete respinge anche l’obiezione per cui deportazioni illegali e violazioni dei diritti umani sarebbero in realtà sola colpa dei singoli corpi di frontiera nazionali: «Se hanno certamente delle responsabilità, queste sono comunque condivise da Frontex, che non ha neppure una nave nel Mediterraneo, pur di non dover soccorrere i migranti ed essere costretta dalla Convenzione di Ginevra a portarli in Europa invece che in Libia». Un’agenzia «la cui sorveglianza aerea fornisce informazioni alla guardia costiera libica per respingere i barconi», e che «è stata concepita per portare avanti una politica strutturalmente razzista, per creare una ‘Fortezza Europa’ in cui avremo impianti eolici e belle auto elettriche e potremo sparare a chiunque attraversi i confini».
D’altronde, Rackete non ha dubbi: «Ragionando più utopisticamente, credo che l’umanità sarebbe più al sicuro se di confini non ce ne fossero, e dunque non esistessero neppure Stati-nazione ed eserciti». Con o senza capitani.