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L’Industria 4.0 e il futuro del lavoro con il Club Plinio Verda

Intervista all’imprenditrice Nicoletta Casanova su opportunità e rischi dell'intelligenza artificiale

4 maggio 2021
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Innovazione, intelligenza artificiale, digitale: sono alcune delle parole chiave di un futuro che certo fa grandi promesse, ma solleva anche problemi e difficoltà che non è possibile trascurare. Così, insieme al lavoro del futuro, alle professioni che nascono e tramutano con grazie allo sviluppo tecnologico, ci si deve interrogare sul futuro del lavoro, sulle competenze divenute inutili, sui mestieri scomparsi, sulle disparità che questi cambiamenti portano. Il discorso è ampio e ne discuteranno – giovedì 6 maggio alle 18 alla Biblioteca cantonale di Lugano nell’ambito degli incontri del Club Plinio Verda – Luca Gambardella, professore di informatica all’Università della Svizzera italiana, e l’imprenditrice Nicoletta Casanova, membra del consiglio dell’innovazione di Innosuisse.  Ingegnere civile di formazione, Casanova ha subito puntato sull’innovazione, come ci spiega: «Ho subito iniziato a lavorare a un progetto di ricerca sulle fibre ottiche che ha portato, più di vent’anni fa, alla mia prima start-up, pioniera nell’utilizzo della fibra ottica nel monitoraggio strutturale».

L’intelligenza artificiale è vista sia come opportunità di sviluppo, sia come rischio per l’attuale mercato del lavoro. Tra questi due estremi lei dove si trova?

Non possiamo scappare da questa evoluzione: la tecnologia è così presente nella nostra vita quotidiana che neanche ce ne rendiamo più conto. L’intelligenza artificiale è inoltre un termine molto vasto: ha certamente a che fare con l’automazione, ma più in generale con il coniugare la parte umana con la parte razionale e logica di una macchina. Il tema non è quindi riassumibile in due parole.

Dove mi colloco, tra i due poli indicati? Sono una persona innovativa: ho sempre voluto sperimentare, non ho mai avuto paura di valutare quello che viene proposto. Sono quindi dalla parte dell’innovazione, dell’evoluzione, perché non è una cosa che si possa interrompere. L’innovazione c’è sempre stata, ha sempre avuto dei cicli – si parla di industria 1.0, 2.0, adesso si parla di industria 4.0 – i cui tempi si accorciano ed è questo che ci fa più paura: l’essere umano fatica a seguire quello che la tecnologia porta.

La globalizzazione qui è un importante motore: rende possibile la collaborazione di tutte le persone in tutto il mondo, fa sì che chiunque possa fornire conoscenza. Ma può portare a disuguaglianze: sono quindi favorevole all’innovazione ma dall’altra parte bisogna essere bravi a trovare un equilibrio tra la tecnologia e la parte umana e sociale, affrontare ad esempio le disuguaglianze tra chi ha accesso alla tecnologia e chi invece non ce l’ha, tra chi ha la capacità di operare con la tecnologia e chi invece no.

Ma come trovare questo equilibrio?

Mi sono confrontata spesso con chi si occupa di innovazione: sono consigliera di Innosuisse, sono abituata a vedere molti progetti e la parola intelligenza artificiale è un concetto chiave, se si vuole essere considerati innovativi. Ma sono anche nel comitato direttivo di Bridge, uno strumento del Fondo nazionale svizzero e di Innosuisse che riguarda progetti che si trovano tra la ricerca di base e la ricerca applicata. Negli scorsi anni abbiamo discusso molto sull’opportunità di finanziare non solo progetti per l’innovazione tecnologica, ma anche in ambito sociale. Perché ci si rende conto che l’aspetto umano è fondamentale quando si parla di innovazione: sempre più istituzioni e associazioni si rendono conto quanto sia importante non in contrapposizione, ma insieme all’intelligenza artificiale. Senza dimenticare gli aspetti etici di alcune applicazioni dell’intelligenza artificiale che non si possono tralasciare.

L’incontro fa parte del ciclo Luci e ombre della globalizzazione e a livello di innovazione e di regolamentazione, le cose importanti avvengono altrove. Il Ticino cosa può fare?

Stiamo parlando di massimi sistemi, la risposta non può che essere generale. È ovvio che non abbiamo potere sulle leggi degli Stati Uniti o europee, ma come in tutte le cose dobbiamo fare la nostra parte. Oltretutto come Svizzera non solo abbiamo un livello di innovazione molto alto, ma siamo anche riconosciuti a livello internazionale. Inoltre abbiamo visto che cosa può fare una persona se riesce a comunicare in maniera concreta; penso a Greta Thunberg e a tanti altri.

Imprenditrici e imprenditori quanto margine hanno per mantenere quell’equilibrio tra tecnologia e lato umano?


Dipende molto dai valori di ogni azienda. La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale non si applicano dall’oggi al domani, per ogni azienda c’è un percorso, anche lungo, da fare.

Si parla spesso di responsabilità sociale delle imprese: è un punto importante nella mia esperienza e anche in quella dell’Aiti, l’Associazione industrie ticinesi di cui sono consigliera all’innovazione. Si fa molta attività di informazione e di formazione sulla responsabilità sociale, abbiamo molti strumenti a disposizione. Si parla ad esempio di sostenere i giovani che stanno entrando nel mercato del lavoro, per formarli nelle nuove tecnologie, per indirizzarli verso le professioni del futuro. Perché è vero che molte professioni spariranno, ma altre nasceranno e l’imprenditore può prevedere quali saranno e fare formazione interna per queste nuove figure.

È responsabilità dell’azienda garantire il passaggio a queste nuove tecnologie: non è facile, nessuno ha la bacchetta magica, ogni realtà è un discorso a sé e chiaramente io parto avvantaggiata perché la mia azienda è “nata digitale”.

Si è accennato alle disuguaglianze: quando si parla di tecnologia, si pensa a qualcosa “da uomini”. Quanto sono presenti i pregiudizi verso le donne?

Su questo ho posizioni discordanti. Come detto sono ingegnere civile e già a scuola – prima al liceo scientifico e poi al politecnico – mi sono trovata “in minoranza” e qualche professore di tanto in tanto faceva la battuta. Però forse ingenuamente non ho sentito discriminazione perché per me è sempre stato normale fare attività “non da donna”. Mi è anche capitato di incontrare il direttore di una grande azienda orologiera e per lui, chissà perché, Casanova era un cognome da uomo: quando mi sono seduta alla mia scrivania mi ha detto “Ma lei è una donna?”.

Ci sono aspetti un po’ “tradizionali”, che però almeno per quanto riguarda il mio ambiente stanno cambiando e devo dire che si è fatto un grosso lavoro con le quote rosa sulle quali avevo delle perplessità: volevo infatti essere considerata alla pari, senza gruppi di donne o quote. Sta diventando sempre meno inusuale avere donne nei gruppi importanti: non siamo ancora arrivati alla situazione ideale ma stiamo facendo passi importanti.