Scienze

I vaccini evitano i decorsi gravi da varianti per almeno 6 mesi

A differenza della prima linea di difesa degli anticorpi contro la proteina spike, quella dei linfociti T riconosce e contrasta il virus anche se mutato

(Keystone)
14 febbraio 2022
|

Quale che sia il vaccino o la variante, la linea di difesa contro Covid-19 rappresentata dai linfociti T tiene ed è capace di riconoscere e contrastare efficacemente il virus per almeno sei mesi. È la buona notizia che arriva da uno studio condotto da ricercatori del La Jolla Institute for Immunology in collaborazione con l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e l’Università di Genova. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cell.

L’emergere di nuove varianti del virus SARS-CoV-2 ha rappresentato negli ultimi due anni il principale ostacolo al superamento della pandemia: le mutazioni accumulate dal virus lo rendono meno riconoscibile agli anticorpi sviluppati in seguito alla vaccinazione. La comparsa della variante Omicron ha accentuato questa tendenza.

Numerosi studi negli ultimi mesi hanno però mostrato che, sebbene la prima linea di difesa rappresentata dagli anticorpi specifici contro la proteina Spike del virus perda di efficacia, così non è per la retroguardia: i linfociti T. La risposta efficace da parte di queste cellule non impedisce di contrarre l’infezione, tuttavia contribuisce a ridurre il rischio che si sviluppi una forma severa di Covid.

Il nuovo studio ha ora confermato questa ipotesi. La ricerca è stata condotta su 96 persone che avevano ricevuto uno dei vaccini disponibili o in corso di valutazione in Usa: Pfizer/BioNTech, Moderna, Johnson e Novavax. Nessuno di loro aveva ancora fatto la dose booster. I test effettuati a sei mesi hanno dimostrato che, indipendentemente dal vaccino effettuato, le cellule T sviluppate dopo la vaccinazione erano in grado di riconoscere efficacemente tutte le varianti, compresa Omicron.

Nello specifico, contro le varianti pre-Omicron veniva conservato il 90% dell’efficacia della risposta immunitaria da parte delle cellule T CD4+ e l’87% di quelle CD8+. Con Omicron queste percentuali scendevano rispettivamente all’84% e all’85%.

Questi risultati si spiegano con il differente funzionamento dei linfociti T rispetto agli anticorpi: “È stato osservato che le cellule T di ogni individuo vaccinato sono ‘allenate’ a riconoscere non un solo elemento della proteina Spike ma in media una ventina di pezzetti diversi del virus”, spiega Gilberto Filaci, direttore dell’Unità di Bioterapie dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e tra gli autori dello studio.

“In pratica – riassume – queste cellule si comportano come chi sa riconoscere una persona da 20 dettagli diversi del viso: anche se poi indossa un paio di occhiali o taglia i capelli, è molto improbabile che questi cambiamenti siano tali da rendere irriconoscibile l’identità della persona”.

Proprio questa caratteristica, secondo Filaci, fa ben sperare. “Visti i risultati dei test a sei mesi del vaccino, è molto probabile che le cellule T dei vaccinati diano luogo a una protezione immunitaria di lunga o lunghissima durata nei confronti della malattia grave. È infine plausibile che il vaccino possa ‘frenare’ anche le future varianti”, conclude.