Scienze

Covid-19, la corsa etica al vaccino

È lecito contagiare delle persone per verificare l'efficacia di vaccini e altre terapie? La comunità scientifica elabora alcune raccomandazioni

Protetti dal virus (Keystone)
9 maggio 2020
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Sono un centinaio, i progetti di ricerca per un vaccino contro il nuovo coronavirus censiti dalla Gavi, l’Alleanza mondiale per vaccini e immunizzazione. Un vaccino sicuro ed efficace permetterebbe infatti di superare la crisi sanitaria globale – sempre che sia accessibile all’intera popolazione mondiale, una sfida non da poco dal momento che già adesso in molte zone del mondo è difficile avere vaccini “tradizionali” come quello del morbillo. L’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato un progetto, sostenuto da numerosi partner internazionali, affinché il futuro vaccino della Covid-19 sia effettivamente disponibile in tutti i Paesi.
Tuttavia, al momento la maggioranza dei progetti di ricerca è ancora nella fase preclinica, in pratica quella in cui, prima di sperimentazioni su esseri umani, si valuta il comportamento e la tossicità. In realtà, tenendo presente i tempi “normali” di sviluppo di un vaccino – una decina d’anni –, dovrebbe stupire di avere già alcuni candidati nelle fasi 1 e 2 di sperimentazione clinica, svolte su un numero limitato di persone per testare la sicurezza (nella fase 1) e l’efficacia.

Quella al vaccino per la Covid-19 è infatti una corsa: non tanto contro gli altri concorrenti, ma contro il tempo. Come già accaduto per l’ebola, si cerca quindi di accelerare i tempi di sviluppo senza ovviamente compromettere né la sicurezza né l’efficacia del vaccino. Come? Se possibile, svolgendo alcune fasi in parallelo: è quanto è stata autorizzata a fare la statunitense Moderna grazie alla particolare tecnologia impiegata per il proprio vaccino (a Rna messaggero anziché virus attenuato o inattivo). Ma il vero nodo resta la terza fase di sperimentazione clinica, l’ultima prima della messa a disposizione del vaccino alla popolazione (continuando a controllare eventuali effetti collaterali, in pratica una quarta fase di sperimentazione).

La fase 3 è infatti la prova di efficacia e coinvolge migliaia di persone: a metà dei volontari si somministra il vaccino, all’altra metà un placebo, dopo di che si aspetta, per vedere se il gruppo vaccinato sul serio è davvero maggiormente immune del gruppo vaccinato per finta. Da qui l’idea di provare a contagiare con il nuovo coronavirus i volontari: questo permetterebbe di accorciare la sperimentazione da diversi mesi a poche settimane. “Dovremmo infettare persone sane?” ha chiesto la rivista ‘Nature’ al bioeticista Nir Eyal della Rutgers University. Diciamo subito che non sarebbe esattamente una novità: sperimentazioni simili (chiamati ‘human challenge trial’) sono relativamente frequenti con patogeni non particolarmente pericolosi, tralasciando alcuni precedenti storici con malattie ben più letali della Covid-19, ma si tratta di capitoli non proprio edificanti della storia della medicina. Gli aspetti etici sono per fortuna attentamente valutati e la proposta di una sperimentazione simile per il virus della zika era stata respinta a causa dei rischi per i partner dei volontari. Un problema che non si porrebbe per la Covid-19, argomenta Eyal: è infatti possibile organizzare la sperimentazione riducendo al minimo i rischi isolando i volontari per evitare possibili contagi a familiari e amici, assicurandosi che non appartengano a una categoria a rischio, monitorando costantemente il loro stato di salute eccetera.

Un quadro più completo dei problemi etici delle infezioni controllate del nuovo coronavirus lo troviamo in un articolo appena uscito sulla rivista ‘Science’: “Ethics of controlled human infection to study Covid-19”. Gli autori (una ventina, prima firma quella di Seema Shah della Northwestern University) hanno infatti costruito una sorta di “cornice teorica” per questo tipo di sperimentazioni, utili non solo per lo sviluppo dei vaccini ma anche per la valutare altri farmaci o studiare i meccanismi di diffusione della malattia. E il primo punto riguarda appunto che cosa si studia: solo alcune ricerche, quelle che riguardano problemi rilevanti e irrisolti (come, appunto, lo sviluppo di un vaccino), giustificano il ricorso a simili sperimentazioni. Ma l’importanza sociale della ricerca non si limita a questo: gli autori, pur con qualche contrasto tra di loro, indicano come requisiti anche la condivisione dei risultati ottenuti – il che, si legge nel documento, potrebbe portare a rinunciare ai brevetti o a prevedere particolari licenze per i Paesi in via di sviluppo – e il coinvolgimento non solo di tutti gli enti coinvolti, ma anche dell’opinione pubblica.
Ovviamente anche i rischi – per chi si sottopone alla sperimentazione, oltre che per estranei e personale sanitario – devono essere valutati tenendo conto dell’importanza della ricerca per la società. E in ogni caso ridotti al minimo, con le misure cui si è già accennato: soggetti non a rischio in isolamento e costantemente controllati. Il che porta alla parte più delicata di queste sperimentazioni: la scelta dei soggetti, ovviamente volontari ben informati dei rischi che corrono. Bisogna infatti evitare di sottrarre risorse sanitarie alla popolazione e più in generale di coinvolgere comunità vulnerabili. Anche per questo la raccomandazione è di evitare retribuzioni che vadano al di là del semplice compenso per i disagi, anche economici, subiti dalla sperimentazione che rimane, essenzialmente, un atto di altruismo.