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Inchiostro per la mente: la scrittura della conosc(i)enza

Le feste natalizie significano per molti armarsi di penna e bigliettini. Esercizio utile, ma ormai trascurato

(iStockphoto)
8 dicembre 2018
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Nel rapido mutare di abitudini e attitudini che caratterizza il nostro tempo, plasmato dall’impatto delle nuove tecnologie, l’attenzione tende a essere catalizzata da fenomeni macroscopici quali il modo in cui socializziamo o la crescente automazione dei processi di lavoro. Ci sono tuttavia altri aspetti, meno vistosi ma forse altrettanto sostanziali, su cui vale la pena soffermarsi. Fra questi, la graduale dismissione di carta e penna in favore della tastiera del computer, del tablet e soprattutto del telefono.

Insomma, non si scrive più a mano, tanto che non solo le nuove generazioni tendono a considerare tale pratica come un retaggio d’altri tempi, ma anche molti adulti «disimparano» a farlo, fino al punto che l’apposizione della propria stessa firma, a cui è sempre più spesso preferita quella «digitale», viene ove possibile evitata.

Strumenti diversi, pensieri diversi

Come tutti i cambiamenti antropologici, anche il graduale abbandono della scrittura manuale risponde a una logica di ottimizzazione delle risorse: digitare lettere su un dispositivo è oggettivamente meno complesso che vergare caratteri su un foglio bianco, basti pensare che per imparare a scrivere i bambini impiegano in media due anni di tempo. Ma se i vantaggi in termini di rapidità e semplificazione sono indubbi, è anche vero che il passaggio dall’una all’altra modalità è stato favorito dall’uso pervasivo degli smartphone. Una volta di più ci si chiede dunque quanto tali mutamenti, automaticamente indotti dalla tecnologia, siano di fatto auspicabili.

«Non posso liberarmi dalla sensazione che il mio pensiero sia diverso – più misurato, più ricco – quando viene mediato dalla mano invece che da una macchina» scrive a questo proposito Brandon Keim, scrittore e giornalista scientifico («The science of handwriting» in Scientific American Mind, sett./ott. 2013). Di certo, sul piano sensoriale, l’azione di scrivere manualmente è più ricca e composita: dall’odore dell’inchiostro e della carta alla fluidità del movimento della mano che guida la penna attraverso il foglio, fino al lieve rumore prodotto dall’attrito del pennino sulla pagina.

La scrittura manuale convoglia percezioni eterogenee che contrastano con l’omogeneità del sillabare singole parole su una tastiera, picchiettando con un dito la superficie liscia e luminosa del monitor. Sul come poi la maggiore «densità esperienziale» dello scrivere a mano si rifletta sui nostri processi di pensiero sono state di recente svolte alcune ricerche con risultati preliminari interessanti.

Pioniera in questo campo d’indagine è Christina Haas, docente al Dipartimento di studi sulla scrittura dell’Università del Minnesota, che alla fine degli anni Ottanta pubblicò uno studio-pilota che sembrava indicare come gli studenti pianificassero meglio i loro saggi quando scrivevano a mano, invece che utilizzando un word-processor («How the writing medium shapes the writing process: Effects of word processing on planning» in Research in the Teaching of English, 1989).

In altri termini, l’elaborazione del saggio sembrava facilitata dalla scrittura manuale, con il risultato di produrre testi in maniera più lineare, intervenendo proporzionalmente di meno per riformulare le frasi o modificare la sequenza dei periodi. A fronte di questi risultati, Haas si è chiesta come fosse possibile che lo strumento che utilizziamo per scrivere influenzi ciò che avviene nel nostro cervello. A suo parere, la variabile critica risiede in ciò che s’interpone fra il medium e la mente, e cioè il corpo umano. Nello specifico, le mani e il modo in cui le adoperiamo.

Le mani della comunicazione

«C’è un collegamento intimo fra la mano e la mente» asserisce l’antropologo statunitense David F. Armstrong. «In una società visione-centrica, si tende a sottovalutare il ruolo delle mani» conferma Brandon Keim, «ma la loro importanza nel corso dell’evoluzione è stata capitale. Lucy, l’australopiteco considerato la capostipite della nostra progenie, non era speciale solo perché stava eretta, ma perché nel fare questo aveva liberato le proprie mani. Durante i diversi milioni di anni che seguirono, queste appendici acquisirono versatilità e precisione squisite: qualità utili nel fabbricare attrezzi ma anche, verosimilmente, nel modellare l’espressione verbale. Alcuni ricercatori pensano infatti che la gestualità abbia consentito al linguaggio di evolvere, prefigurando quella capacità di articolazione che è propedeutica all’emergere della sintassi».

«Usiamo le nostre mani per accedere ai nostri pensieri» afferma Virginia Berninger, psicologa dell’educazione all’Università di Washington, secondo la quale lo scrivere manualmente è correlato all’abilità nel formare le lettere, alla leggibilità della grafia ma anche alla fluidità d’espressione. Su queste basi, Berninger considera le mani come «gli organi distali (le appendici, ndr) del sistema-linguaggio», mentre Anne Mangen, dell’Università di Stavanger (Norvegia), pone l’accento sul ruolo della coordinazione: scrivere con la penna fa convergere mano, occhio e attenzione in un singolo punto nello spazio e nel tempo, mentre digitare su una tastiera frammenterebbe questa unità. Le proprietà spaziali della scrittura manuale potrebbero perciò costituire uno dei punti d’intersezione fra il livello fisico e quello astratto, intellettuale: «Forse le lettere che formiamo a mano, inscritte più profondamente nel nostro cervello, edificano blocchi per architetture mentali più robuste» ipotizza ancora Keim.

Silicon Valley: ferri, palla e frutta

A fronte di queste affascinanti ipotesi, pare ormai acclarato che lo scrivere con carta e penna contribuisca a preparare il «terreno» neurologico per l’acquisizione di altre importanti capacità e abilità, come quella di leggere e di memorizzare (J. Richler, «Brighter Writer», Psychology Today, 2013). Inoltre, secondo Maria Anna Zaramella, grafologa e rieducatrice della scrittura che collabora con diversi istituti scolastici del nostro Cantone, «scrivere a mano è una forma di allenamento non solo alla motricità fine, ma anche alla pazienza: stimola la concentrazione e l’autocontrollo motorio ed emotivo. […] Insomma, scrivere a mano aiuta a pensare» (intervista rilasciata a Cooperazione, 7/9/2015). Interessante notare, a questo proposito, come la maggior parte degli executive della Silicon Valley mandino i propri figli a scuola presso un istituto steineriano – la Waldorf School – nel quale computer, tablet e smartphone sono banditi. Questi genitori, il 75% dei quali lavora nelle grandi aziende high-tech, tendono a considerare le competenze digitali come secondarie: «Quella è la parte più semplice» afferma uno di loro, «come imparare a lavarsi i denti con il dentifricio. In Google e luoghi simili fabbrichiamo una tecnologia che sia il più possibile semplice da usare. Non c’è motivo per cui i ragazzi non l’apprendano più avanti» (Matt Richtel, «A Silicon Valley school that doesn’t compute» in The New York Times, 22/10/2011).

Gli strumenti didattici utilizzati presso le scuole Waldorf sono altri: il lavoro a maglia, per esempio, che sembra stimolare la capacità di problem-solving, l’abilità nell’individuare schemi ricorrenti e il ragionamento matematico; oppure il giocare a tirarsi una palla morbida in cerchio, ripetendo contemporaneamente i versi di una poesia (un esercizio volto a sincronizzare corpo e cervello). O ancora, l’imparare le frazioni facendo tagliare ai bambini frutta, verdura e dolci in quarti e sedicesimi, che vengono diligentemente «spazzolati» nel corso dell’apprendimento. Il denominatore comune di questi metodi d’insegnamento è l’impiego delle mani e del corpo in sinergia con la mente.

Un esempio ticinese

Gabriela Hess, titolare dell’atelier Calligraphic Design di Ponte Tresa, che da oltre quindici anni insegna calligrafia in Svizzera e all’estero, sembra condividere questa linea di pensiero: «[…] Quello che osservo è il desiderio di un ritorno alla manualità. Diversamente dalla pittura o dal disegno, la calligrafia comprende la lettera scritta, la comunicazione, e questo è un altro degli elementi che suscita interesse» (Azione, 16/4/2018).

Socia dell’Associazione Calligrafica Italiana e del Gruppo Calligrafia Ticino (vedi scheda a lato), la signora Hess collabora con aziende internazionali del calibro di Montblanc, Vuitton e Prada: «La mia arte non è solo interpretare, né disegnare il senso delle cose, è invece lasciarsi permeare dal fluire delle percezioni» si legge sul suo sito (gabrielahess.ch). E chissà, forse è proprio una forma di riconciliazione fra res cogitans ed extensa che le persone cercano ai suoi seminari, mentre imparano a lasciare fluire pensieri ed emozioni attraverso il pennino…