Sanremo 2021, chi ha vinto e chi ha perso. ‘Pare che cantare bene sia un crimine’, dice Ermal Meta. Lui, Orietta e i vincitori sono alcuni degli antidoti.
“Mi fa sperare che la musica che piace a me, quella dei dinosauri, del rock, non sia definitivamente morta, anche perché l’unica speranza che abbiamo noi anziani è di tornare a vedere un concerto, e di solito andiamo a vedere concerti di personaggi straordinari che però hanno settant’anni: va bene che sono immortali, ma anche per loro, prima o poi, arriva il momento”. Sbobiniamo parole del rockettaro Antonio Ornano, comico ligure svegliatosi ieri mattina con la sorpresa: il rock ha sbancato il 71esimo Festival della Canzone Italiana; ‘Zitti e buoni’, con tutte le sue benedette parolacce e il carico di glam (nulla a che vedere con l’Achille Lauro sanguinante, sia chiaro), è la rappresentazione dei Måneskin al potere. La band romana esplosa in X Factor, e per questo di giovedì con il coach Manuel Agnelli in ‘Amando’ dei Cccp – ha fatto alzare l’orchestra dalle sedie per uno dei brani più diversamente sanremesi della storia delle diversità. Ornano, i Måneskin, li definirebbe – così come in estate definiva gli AC/DC – “dei magnifici tamarri”.
Ma la frase di questo Festival è un’altra: «Pare che cantare bene sia un crimine, che non vada più di moda». L’ha pronunciata Ermal Meta ieri mattina nella conferenza stampa conclusiva. Non è un rammarico per la vittoria sfumata – «Sono contento che un pezzo senza effetti speciali come il mio (‘Un milione di cose da dirti’, canzone giunta terza, ndr) abbia ottenuto un tale risultato» – ma una risposta a chi gli chiedeva di definirsi: «Sono un cantante, devo saper cantare».
Il problema, a nostro parere, non è l’Autotune, software per l’intonazione della voce capace d’intonare gli incapaci, proibito a Sanremo in tale funzione ma ammesso “come effetto”. «C’è una grande confusione», dice Achille Lauro nella sua unica apparizione pubblica al di fuori del palco. «Non è solo un correttore, ma una scelta stilistica, come il distorsore per la chitarra». Cita i Daft Punk, Travis Scott. «Non si tratta solo di correzione, è una sfera più grande». E a suo modo – guardando a Cher in ‘Believe’, ma ricordandosi che pur col distorsore, la chitarra dev’essere accordata – la riflessione può anche essere corretta. Salvo che nessuno gli chiede di Fasma (‘Parlami’), i non luoghi della non musica, soltanto lui, l’Autotune e il respiro di Roberto da Crema. Il problema, dicevamo, non è l’Autotune ma far cantare il melodico ai rapper, affidare loro pezzi di canzoniere italiano per fare curriculum (“Ha cantato Tenco”, “ha cantato Vasco”, “ha cantato Dalla”).
“Una volta, se stonavi, non mettevi più piede su quel palco”, aveva motivato in settimana le sue perplessità Dario Salvatori, storico della manifestazione. Perplessità sugli ‘urlatori’ Random e Aiello (dove ‘urlatori’, un tempo, viaggiava di pari passo con ‘intonati’), l’estraniante Gio Evan (“è un poeta”, scrivono di lui, ma la poesia non presuppone necessariamente il canto), i pur onesti Coma_Cose, Fedez per metà senza Autotune (il risultato sulla prima strofa è lì da sentire), e quel simpaticone di Bugo, naturalmente, giustificato dai suoi maestri, non tutti esattamente dei diapason. Ma con un discorso a parte da farsi (segue, più in là).
Ci si metta anche che sanno cantare, hanno vinto le quattro Nuove Proposte, incluso Davide Shorty, mosca bianca giunta seconda come tutti giovani sui quali scommettiamo ogni anno (successe con i da noi intervistati Mirkoeilcane nel 2019 e Tecla Insolia nel 2020). Hanno vinto (anche Premio Lucio Dalla) Colapesce Dimartino, bravi anche prima di ‘Musica leggerissima’, per i quali il valore del brano batte la voce così-così (nemmeno Samuele Bersani brilla per intonazione, ma ha scritto ‘Giudizi universali’ e può cantare come gli pare). Ha vinto Ermal Meta (anche Premio Giancarlo Bigazzi per la migliore composizione musicale) che ti legge dentro e quasi dà fastidio, ma sa cos’è scrivere una canzone, alternanza di concetti semplici per dare spazio a quelli più profondi, pietruzze e macigni: «Una canzone è una strada cosparsa di pietre – diceva in settimana – dove le pietre sono le parole. Se inciampi ogni due per tre non arriverai mai alla fine. Se invece ci sono pietre su cui puoi camminare, e qualcuna più grande su cui puoi inciampare, ce la puoi fare». È quanto accade in ‘Un milione di cose da dirti’, ballad classica, non banale.
Ha vinto la radiofonica Rappresentante di Lista (‘Amare’), e ha vinto la signora Orietta Berti, che dal confronto con gli stonati esce come Aretha Franklin al concorso di Voci Nuove di Gatteo Mare. A proposito di Romagna: hanno vinto gli Extraliscio, che ancor prima di ‘Bianca luce nera’, di giovedì con ‘Rosamunda’, festeggiavano il folk romagnolo con tanto di chitarra roteante (grazie di esistere, Exrtraliscio). Tra gli ospiti ha vinto Ornella Vanoni, e hanno vinto tutti coloro i quali hanno scritto o lavorato per lei, dagli autori della ‘mala’ a Jannacci, da Antônio Carlos Jobim e Chico Buarque fino a Francesco Gabbani e Pacifico. L’Ornella che a 86 anni manda fuori l’orchestra è perdonabile (meno lo è Neffa, che insieme all’orchestra, di giovedì, mandava fuori anche Noemi su una canzone scritta da lui). Hanno vinto Loredana Bertè, Elodie, Negramaro a onorare Dalla in ‘4/3/1943’ nel giorno del suo compleanno, e Umberto Tozzi, dal repertorio che non è solo ‘Ti amo’. La classifica non premia il ‘Cuore amaro’ di Gaia; le radio lo faranno. Nemmeno premia ‘Il farmacista’ di Max Gazzè, formula ritmica già sentita, che provi a ricordartela e ti viene in mente ‘Sotto casa’. Ma avercene.
Vince Willie Peyote, denuncia un po’ logorroica, ma ampiamente retribuita (Premio della Critica intestato a Mia Martini). Vince la trap-evolution di Madame (Premio Sergio Bardotti al miglior testo per ‘Voce’), già intoccabile come Bob Dylan e Achille Lauro: il labiale è utile per comprenderne il testo, il mondo della trap l’ha già scaricata per troppo mainstream, ma la signora Caselli pare averci visto giusto. E hanno vinto i Måneskin: lo abbiamo detto?
Da un punto di vista prettamente contabile, quello di Francesca Michielin e di Fedez non è un trionfo. L’endorsement Instagram della moglie Chiara Ferragni, un potenziale bacino elettorale di 23 milioni di follower (“Votate Fede e Franci, sto leggendo tutte le vostre stories e vi amo!”) basta solo a portare il brano dal 21esimo posto (voto Demoscopica, stampa e orchestra) al secondo. E se ‘Chiamami per nome’ non fa esplodere il pallottoliere, la colpa forse non è tutta dell’influencer, ma pure della canzone.
Non ha vinto Francesco Renga, che paga le molte dissonanze di ‘Quando trovo te’. Lontana Noemi, che sbandiera la sua ‘Metamorfosi’ (nuovo album e status esistenziale) e poi si presenta sul palco con ‘Glicine’, una copertina di Linus (dopo una settimana di soliloqui sull’io interiore che fa dimagrire). Non vince Annalisa, spinta giù nel televoto da un brano, ‘Dieci’, non all’altezza delle sue potenzialità.
Nemmeno Bugo ha vinto, forse perché la sua ‘E invece sì’ (24esima) è andata a sbattere contro ‘Sincero’, il 2020 con (poi senza) Morgan. E qui sta l’attenuante: «Vedere che ancora, dopo un anno, io parlo di musica e torna quell’argomento (Morgan, appunto, ndr), e mi sta bene che quell’argomento abbia cambiato la mia vita, dimostra che per qualcuno la mia musica non è importante», chiosava di sabato il Bugatti in streaming dal suo albergo. Poche ora prima, sul social: “Mi dispiace che si continui a chiedere dove sia Bugo. Bugo è qui, io sono qui, non sono mai andato via. Mi sono solo allontanato dalla pazzia e dall’opportunismo. Forse questo non fa notizia, né click, ma questo sono io. Non sono il più intonato di tutti, ma di certo sono più sincero di molti”.
Non ha vinto nemmeno Alessandra Amoroso: per cantare ‘Una notte in Italia’ di Ivano Fossati, più bella dell’inno nazionale, serve prima un’autorizzazione dei Beni Culturali. E non basta essere intonati.
Sanremo, cinque giorni effimeri se si parla di gossip, non se si parla di musica, che gli italiani fanno bene da molto tempo così come assai bene fanno lo spettacolo televisivo in diretta. Amadeus e Fiorello, lo spettacolo, lo hanno onorato, rendendo puntualmente conto di una situazione di totale emergenza, compresa da tutti non oltre la prima flessione negli ascolti di un’Italia che, evidentemente, non aveva la testa per il varietà. Flessione che per certa stampa è significato poter tornare a fare le pulci a tutto e a tutti come se non ci fosse una pandemia, chiedendo – come nel calcio – il nome del successore prima che la stagione sia finita e magari la lista dei Big del 2022 (con ordine di uscita sul palco).
«È un periodo in cui la gente nemmeno sa se riuscirà a mettere un pasto in tavola, non lo dimentichiamo. Se m’invitano a una festa, io ci vado e ballo sui tavoli solo se sono felice», diceva il direttore artistico non più tardi di giovedì. Sorda, la terra dei commissari tecnici e degli esperti di Festival è tornata Terra dei cachi: «Nella mia vita ho fatto le saghe di piazza, ho lavorato nelle discoteche mezze deserte, ma lavorare davanti al nulla è qualcosa che non auguro a nessuno», ha ripetuto Amadeus nell’ultimo incontro coi media, in un clima aziendale riassunto in: «Ringrazio chi non voleva fare questo Festival e che in questo momento si sta mettendo delle medaglie sul petto», dice Claudio Fasulo, Rai Uno. Amadeus che, senza frecciatine, lascia facendo i complimenti ai cantanti, all’orchestra, ai suoi autori e al «più grande uomo di spettacolo, mio fratello Rosario Fiorello».
Il mattatore non le manda a dire: «Mai una sala stampa è stata così bella come quest’anno. È un format che la Rai deve proteggere: voi lì belli seduti, tutti a massacrare Amadeus». E poi: «Leggo che qualcuno che parla di flop: 14 milioni sono un flop?». A chiudere: «Il pubblico non serve per l’ego: ti guida, ti dice se ti devi fermare, se devi cambiare argomento. Nelle prime due puntate abbiamo cercato la quadra, e poi ci siamo inventati un mestiere: fare gli spettacoli per nessuno. Credo che questo ci vada riconosciuto». L’Amministratore delegato Rai Fabrizio Salini, di lì a poco, chiederà il ‘triplete’: «Amadeus e Fiorello si meritano l’applauso di quella sala». La sala piena.
Mentre su Sanremo calano le prime ombre della sera (cit. Nick Carter), il Festival non è ancora finito: “L’umanità sta attraversando un periodo caratterizzato dal dolore e dalla sofferenza a causa della pandemia e sul palco dell’Ariston si è raggiunto un livello di dissacrazione, di blasfemia e di vilipendio della fede cattolica davvero inaccettabile”. A parlare, dall’aldiqua, è l’Associazione internazionale esorcisti guidata da padre Francesco Bamonte, che attacca le “esibizioni che hanno leso la sensibilità e il credo di milioni d’italiani e dei fedeli di tutto il mondo”. Achille Lauro non è menzionato direttamente, ma è dei suoi ‘quadri’ che si parla.
Quanta positività, quanto umorismo: forse stiamo recuperando la normalità. Per il bene di Sanremo, che per noi finisce qui. Come Miss Italia.
Achille Lauro, ‘C'est la vie’ (Keystone)