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Paz Vega regista per riflettere sulla ‘violencia machista’

Nel suo esordio alla regia, l'attrice spagnola racconta una storia di violenza di genere dal punto di vista della giovanissima Rita

Paz Vega
(Locarno Film Festival / Ti-Press)
17 agosto 2024
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C’è qualcosa, in ‘Rita’, che ha convinto Paz Vega, dopo oltre vent’anni di carriera da attrice iniziati con il successo di ‘Lucía y el sexo’ – e ancora adesso qualche fan si è fatto firmare foto e locandine di quel film – a passare alla regia.

Quel qualcosa sta forse nella domanda che la protagonista del film, la piccola Rita, pone alla madre: ma perché dobbiamo fare sempre come dice papà? Mari, interpretata dalla stessa Paz Vega, non sa cosa rispondere. «Perché non conosce la risposta, perché per lei è normale che a comandare, in casa, sia il padre-marito, è normale che in famiglia non ci sia democrazia. Ma se vogliamo cambiare la società dobbiamo iniziare dalla famiglia che è il seme della società» ha spiegato Paz Vega che, per il suo esordio da regista, ha affrontato il delicato tema della violenza di genere con una storia ambientata nella Siviglia del 1984, partendo dal punto di vista di Rita, la primogenita di Mari e José di appena sette anni.

Come è arrivare sul set da regista, dopo tanti anni da attrice?

Questo passaggio, dalla recitazione alla scrittura e alla regia di un film, lo considero parte del mio percorso di crescita e certamente ho portato sul set quello che ho imparato da attrice. In particolare, la debolezza e la vulnerabilità: gli attori e le attrici sono nelle mani di chi dirige e di chi monta il film. La differenza tra una buona e una pessima interpretazione non è completamente nelle mani dell’attore o dell’attrice perché tu dai il meglio di te e fai un buon lavoro, ma vengono realizzate venti riprese e alla fine ti rivedi nel film e ti dici “ma come, hanno scelto proprio quella?”. O anche il contrario, sei convinto di aver fatto un lavoro orribile e invece è venuto fuori qualcosa di buono. È la magia della regia e del montaggio.

Il film è raccontato, e ripreso, dalla prospettiva di Rita: per una bambina di sette anni non è stato difficile lavorare con le cineprese così vicine?

Sofía (Allepuz, ndr) era completamente a suo agio: per lei ‘Rita’ è stato il secondo progetto cinematografico: prima aveva partecipato a un cortometraggio per cui sapeva come funziona il tutto, sapeva dove sarebbero state le cineprese, cosa avrebbe dovuto fare e rifare più volte. Gli altri bambini erano invece alla loro prima esperienza ma hanno imparato in fretta: sono intelligenti e hanno capito subito le dinamiche del set. Siamo entrati molto bene in connessione e questo perché sono anche io un’attrice e so cosa attori e attrici hanno bisogno di sentirsi dire. E di solito i registi non dicono nulla, restano sul vago: con loro ho cercato di andare sul concreto, di spiegare bene che cosa avevo in mente. E devo dire che è stato molto bello, lavorare con loro.

Mari avrebbe messo in discussione l’autorità del marito, se Rita non le avesse posto quella domanda apparentemente innocente?

È qualcosa che si risveglia in lei. Perché devo ubbidire, perché devo fare quello che dice e vuole lui? Non sa cosa rispondere e c’è un momento in cui capisce che non deve rispondere a queste domande, ma sistemare le cose.

Senza riuscirci. Senza svelare il finale, può dirci se fin dall’inizio del progetto per lei era chiaro che il film sarebbe dovuto finire così o se aveva in mente anche altre opzioni?

Fin dall’inizio sapevo che il film sarebbe dovuto finire così: il finale non è mai stato in discussione perché sapevo di voler realizzare una tragedia. L’unica cosa su cui ero indecisa era se Rita avrebbe assistito oppure no: alla fine ho deciso, per rispetto o forse per amore, che no, non c’era bisogno che vedesse.

Nel film vediamo José in scene quasi stereotipate di padre-padrone, come la birra che deve essere sempre in frigo e le partite di calcio da seguire in tv. Ma è anche un padre affettuoso.

È un uomo di quarant’anni fa e quarant’anni fa – non so in Svizzera, ma almeno in Spagna – era pieno di uomini così. Non perché fossero cattivi, ma perché dovevano fare gli uomini e sapevano che essere uomini voleva dire quelle cose lì. Non è un cattivo padre o un cattivo marito: ama i suoi figli, non è un ubriacone ma beve giusto qualche birra la sera, non ha amanti, lavora tutto il giorno in un taxi a Siviglia, con 45 gradi, porta a casa lo stipendio, lascia sempre i soldi alla moglie. Fa quello che sente essere il suo dovere di uomo di quarant’anni fa – e che magari qualcuno sente ancora oggi.

Ambientare il film nel 1984 non rischia di indebolire il messaggio del film? Dopotutto si potrebbe pensare che sì, era un problema quarant’anni fa, oggi le cose sono diverse e la ‘violencia machista’ non è più un problema.

La storia potrebbe svolgersi oggi senza problemi, ma ho ambientato il film nel 1984 perché dovevo scrivere qualcosa che conosco e la mia infanzia è stata in un quartiere come quello di Rita. Ed è stata un’infanzia analogica, cosa che trovo più interessante del mondo digitale di oggi. C’è forse un po’ di nostalgia per un’epoca che non tornerà più, ma da bambini si cresceva più liberi, senza essere sempre attaccati a un dispositivo.

È una sorta di lettera d’amore a un’epoca che non c’è più e che non tornerà più. La violenza sulle donne era parte della società e purtroppo è ancora parte della società, bisogna ancora lottare e questo film vuole essere un momento di riflessione su quello che dobbiamo fare per sistemare la società.

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