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L'Iran di Rasoulof, una lunga e imprescindibile denuncia

Dal Guatemala di ‘Mexico 1986’ a ‘Sew Torn’, fino a ‘The Seed of the Sacred Fig’ del cineasta iraniano in esilio, per un gran fine settimana ‘open air’

Da ‘The Seed of the Sacred Fig’ di Mohammad Rasoulof
12 agosto 2024
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Grande fine settimana in Piazza Grande tra prime mondiali e un film che arriva dall’Iran via Cannes per colpire al cuore Locarno. Il sabato sera si è aperto con la prima mondiale di ‘Mexico 86’ di César Díaz, che ha commosso e convinto, un film raro per il quale bisogna andare alla ricerca di radici in ‘La canzone di Carla’ di Ken Loach, maturate in anni in cui diventa difficile il non omologarsi, diventa impossibile parlare di lotta armata, di proletariato, di rivolta contro il sistema. ‘Mexico 1986’ costringe a riflettere sul perché si diventa guerriglieri, perché si è ciò che chi ha il potere chiama ‘terroristi’.

Dalle note di regia di César Díaz: “Fare questo film ha significato confrontarsi con la ribellione armata di mia madre, pur restando una madre. Gli attivisti si dedicano anima e corpo alle trasformazioni sociali, ma non hanno spazio per svolgere il ruolo di genitori”.

Maria

‘Mexico 1986’ parla di questo, di una terrorista che si batte per la democrazia nel Guatemala, un paese dove la Cia, con un piccolo gruppo di guatemaltechi formato prevalentemente da delinquenti ed ex carcerati, rovesciò il governo democraticamente eletto presieduto da Jacobo Arbenz Guzmán nel 1954 (nel 1999, il presidente statunitense Bill Clinton affermò che gli Stati Uniti ebbero torto ad appoggiare le forze militari guatemalteche che presero parte alle brutali uccisioni di civili). Ecco allora che a metà anni settanta Maria, un’attivista rivoluzionaria guatemalteca, è costretta a lasciare il suo paese dopo l’assassinio del marito. Il problema è che ha un figlio troppo piccolo per portarlo con sé, che lascia alla madre per rifugiarsi in Messico con documenti falsi e senza lasciare la lotta armata a favore del suo paese.

Maria lavora in un giornale politico attento alle esigenze di libertà che investono tutto il continente Latino-americano e il Brasile, nel tragico secondo dopoguerra, segnato da continue dittature fomentate dagli Usa. Nel 1986 in Messico ci sono i campionati mondiali di calcio e per l’occasione Maria riceve sua madre e suo figlio, che ormai ha dieci anni. La madre non può più tenerlo perché è malata terminale di cancro. Per Maria che ora ha un compagno che le resta vicino, non è un gran periodo: gli agenti segreti del Guatemala fanno strage dei suo compagni, è anche lei è al centro del mirino, devono continuamente cambiare casa. La donna rifiuta di mandare il suo figlio a Cuba per metterlo in salvo, ma dopo un inseguimento drammatico in cui il bambino è coinvolto – e dopo essere riuscita, autodenunciandosi al direttore del giornale come guerrigliera, a far pubblicare dal giornale foto e nomi dei torturatori e assassini guatemaltechi – decide, piangendo, di farlo partire. E il bambino comprende il perché la madre, lottando, vuole regalargli un paese libero, quello in cui è nato. Regia di gran livello, e la recita di una grandissima Bérénice Béjo nel ruolo della protagonista è sontuosa. È cinema che vibra.


‘Mexico 1986’

Barbara

Sabato sera la Piazza si è poi divertita con il frizzante ‘Sew Torn’ del giovane Freddy Macdonald, con una strepitosa Eve Connolly nel ruolo della protagonista Barbara Duggen, la Sarta Mobile. Lei che gestisce una fallimentare sartoria si trova a giocare con il suo destino avendo a che fare con due personaggi che si rubano una valigetta piena di soldi, sono motociclisti a terra con le pistole fumanti e un pacco di cocaina sparso sull’asfalto. Barbara deve decidere se prendere la valigetta e cosa fare con i due: la prima opzione la vede morta per mano del padre di uno dei due; anche la seconda e anche la terza finirebbe male. Di contorno c’è un’anziana signora che si deve sposare per la terza volta, e la sarta non trova il bottone per fermare al collo il vestito. Poi c’è un vecchio sceriffo, pastore, sindaco che arriva perfino ad arrestare Barbara. Tutto si svolge in un turbinio di spassose situazioni e personaggi caricati alla maniera dei vecchi Cohen. Applausi.

‘Piangi, piangi popolo afflitto, popolo affamato’

Applausi anche per Mohammad Rasoulof e il suo ‘The Seed of the Sacred Fig’ (Il seme del fico sacro). Già premiato a Cannes il film ha trovato qui a Locarno la sua consacrazione popolare, nel suo essere amara metafora sull’Iran di oggi e sulla condizione di un popolo per cui vale la penna di Puskin nel suo Boris: “Piangi, piangi popolo afflitto, popolo affamato”. Il regista stesso ha dovuto lasciare il suo Iran per venire qui in esilio, per salvarsi la vita. In quest’opera, forse inconsciamente, si rifà al mito greco di Saturno che mangia i suoi figli, e cos’è l’Iran se non quel Dio crudele che divora i suoi figli? E come quel Dio si fionda sulle sue figlie e su sua moglie Iman, giudice istruttore presso la Corte rivoluzionaria di Teheran, dopo che qualcuno in famiglia, detestando il suo criminale lavoro di firmare arresti e impiccagioni, le ha nascosto la pistola di ordinanza. Sono i giorni della rivolta femminile a Teheran e il regista infarcisce il film di quelle orribili immagini. Dopo aver fatto interrogare e umiliare le donne di famiglia, le porta in un paese abbandonato dove ancora le interroga e imprigiona a parte la più giovane che ha deciso di mettersi contro il padre. Sopravviveranno loro o lui. È il fato a decidere mentre lui sta sparando alla figlia minore.

I 167 minuti sono troppi, fanno perdere al film forza narrativa e in sala qualcuno ha dormito. Certo la denuncia è importante e imprescindibile ma a Mohammad Rasoulof chiediamo di renderla più fruibile per tutti. Intanto grazie per il film.