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‘Fiore mio’, Paolo Cognetti racconta un’altra montagna

Aspettando l'apertura ufficiale della 77ª edizione, il Festival ha accolto lo scrittore italiano con il suo primo film

7 agosto 2024
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A pensarci un attimo, ‘Fiore mio’ è uno strano titolo, per un film di montagna. Ma del resto ‘Fiore mio’, prima opera da regista dello scrittore Paolo Cognetti proiettato ieri sera in Piazza Grande per il Prefestival, è un film di montagna atipico, nel senso che rientra fino a un certo punto nei codici di questo genere cinematografico. Il che forse spiega perché Cognetti sia partito, per il titolo, dall’omonima canzone del cantautore torinese Andrea Laszlo De Simone (le musiche del film, peraltro, sono di un altro giovane cantautore, il veronese Vasco Brondi).

‘Fiore mio’ racconta il massiccio del Monte Rosa e le persone che abitano e vivono quelle valli e quelle vette. Lo stesso Cognetti, che ha una casa in un piccolo borgo a 1700 metri di quota che sovrasta la vallata di Brusson, il suo cane Laki, l’amico fraterno Remigio, l’anziano Arturo Squinobal e sua figlia Marta che ha trasformato la Orestes Hütte nel primo e unico rifugio vegano delle Alpi e altri curiosi personaggi ancora, come lo sherpa Sete che trascorre metà anno sulle Alpi e l’altra metà in Nepal dove ha scalato tre Ottomila.

In un film di montagna tipico – sia esso di finzione o un documentario –, queste persone si sarebbero in qualche maniera confrontate con la montagna, uscendo trasformate da questa esperienza (solitamente diventando più sagge, ultimamente superando uno di quei traumi che gli sceneggiatori inseriscono in ogni film o serie tv). In ‘Fiore mio’ a cambiare non sono tanto le persone, ma la montagna stessa: il film inizia proprio con una sorgente che, per la prima volta da che ci si ricordi, si prosciuga, lasciando la baita di Cognetti senz’acqua. È da questo episodio apparentemente poco significativo che parte il film, con Cognetti che si reca sui ghiacciai del Monte Rosa per capire, come accennato in dialogo con varie persone, come è cambiata la montagna.

Ora, ci sono due sostanzialmente due modi di fare questo. Il primo è quello di incentrare tutto sulla crisi climatica e sul riscaldamento globale che colpisce in particolare ambienti come l’arco alpino, ricostruendo le cause e raccontando cosa accadrà ai ghiacciai del Monte Rosa in un futuro ormai prossimo e forse inevitabile. La seconda possibilità pigiare sul pedale della nostalgia, lasciando perdere le previsioni scientifiche e andando su malinconici ricordi e testimonianze di un mondo idealizzato che non c’è (e probabilmente non c’è mai stato). In entrambi i casi, il film va condito con belle riprese dei paesaggi alpini.

Cognetti cerca un’altra strada (o via d’arrampicata, visto il contesto): il riscaldamento globale rimane sullo sfondo della narrazione (forse fin troppo, ma sono scelte artistiche) e si evitano gli eccessi di nostalgia, cercando anzi uno sguardo ottimistico sul futuro, realizzando un racconto convincente e non scontato. Non mancano, ovviamente, i suggestivi panorami montani, ma senza esagerare o scadere nel manierismo: Cognetti, pur senza arrivare ai livelli raggiunti da scrittore, si rivela un buon regista.