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Paolo Cognetti, dal Monte Rosa a Piazza Grande

Intervista allo scrittore, e adesso regista, Paolo Cognetti, a Locarno per presentare ‘Fiore mio’, un viaggio tra le vette e chi le abita

Cognetti
(Daniele Mantione)
6 agosto 2024
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Questa sera, in Piazza Grande, si vedrà il Monte Rosa e, soprattutto, si incontreranno le persone che vivono tra quelle cime: il secondo appuntamento del Prefestival prevede infatti la proiezione gratuita di ‘Fiore mio’ dello scrittore Paolo Cognetti, vincitore nel 2017 dello Strega con ‘Le otto montagne’.

‘Fiore mio’ è il primo film da lui diretto e non poteva che raccontare la montagna a lui cara, quel Monte Rosa che ha frequentato fin da bambino e che ora vede cambiare inesorabilmente anche a causa del riscaldamento globale che – come si vede all’inizio del film – ha portato per la prima volta al prosciugamento della sorgente che alimenta la sua casa a Estoul, piccolo borgo posto a 1’700 metri di quota che sovrasta la vallata di Brusson. È proprio seguendo l’acqua e il ghiaccio che Cognetti, insieme ad amici e compagni di viaggio, costruisce il racconto di ‘Fiore mio’, titolo che riprende una canzone di Andrea Laszlo De Simone.

‘Fiore mio’ è un racconto intimo e personale della “sua” montagna, il Monte Rosa. Come è stato girato? Difficile immaginarla con una grande troupe cinematografica in giro per sentieri e vie d’arrampicata.

È vero, non avrebbe avuto senso. Nelle scene più complesse, girate nei rifugi, avevo una piccola troupe di 5-6 persone. In tante altre eravamo solo in due: io e l’amico montanaro che mi faceva da operatore partivamo la mattina con la macchina da presa nello zaino, per raggiungere un lago, una cascata, una sorgente. Non era tanto diverso dall’andare a camminare insieme. Volevo conservare quello spirito.

Può raccontarci il suo percorso di avvicinamento al cinema, iniziato con l’adattamento di ‘Le otto montagne’ di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e arrivato adesso alla regia?

In realtà è iniziato molto prima, ho studiato Sceneggiatura alla Civica scuola di cinema di Milano quando avevo 20 anni. È lì che mi sono appassionato al documentario come a un modo di viaggiare, incontrare persone, raccogliere e raccontare storie. Mi sono allontanato dal cinema per dedicarmi alla scrittura e solo di recente ho sentito il desiderio di tornarci. Qui c’entrano ‘Le otto montagne’, sì. Mi era piaciuto molto dare una mano alla realizzazione del film, in piccolo ho voluto ripetere l’esperienza.

Che cosa ha il cinema, come forma artistica e mezzo di comunicazione, che la letteratura non ha?

Personalmente, del cinema mi piace la dimensione collettiva. Si lavora con altri, si ascoltano le loro idee, ci si affida al loro talento e alla loro esperienza, mentre la scrittura è un processo così solitario, a volte claustrofobico. Tutto avviene nella tua testa e sulla pagina. Il documentario in particolare è incontro, esplorazione: girarlo è un’avventura.

E, viceversa, c’è qualcosa che il cinema non ha ma troviamo invece nella letteratura?

Che cosa della letteratura manca al cinema? Forse la totale libertà dello scrittore, quando scrivo non ho alcun limite, le possibilità sono sconfinate.

Il film parte dalla siccità del 2022 e dal prosciugamento di una sorgente. Che ruolo gioca il cambiamento climatico in ‘Fiore mio’?

È l’inizio del racconto: un giorno la sorgente di casa mia ha smesso di dare acqua. È quella che ho bevuto per anni, nessuno ricordava che fosse mai mancata. Abito a una decina di chilometri dai ghiacciai del Monte Rosa e sono andato a cercarla lì, in un senso direi poetico. Ho visitato tre rifugi, incontrato le persone che li custodiscono e chiesto loro come sta cambiando la montagna, e cosa significa vivere lassù.

Il film mi sembra evitare i toni nostalgici. È effettivamente stata una sua preoccupazione, evitare toni malinconici e costruire un racconto che, seppur tra molte incertezze, è comunque aperto al futuro?

La nostalgia fa parte dell’essere umano, soprattutto quando parliamo di montagna. Per molti di noi è un luogo di ricordi, camminare lungo un sentiero percorso tante volte è come fare un viaggio nella memoria. Però mi sforzo di pensare che il cambiamento non sia sempre e solo verso il peggio: per esempio ricordandomi che, dove il ghiacciaio scompare, poco a poco arriva la vegetazione, e con lei la vita. Giovani uomini e donne scoprono la montagna e se ne innamorano. Ad andare per rifugi, questa nuova umanità si nota ed è con gioia che se ne percepisce la passione, come è successo a me con Mia, l’ultimo personaggio del film. Viviamo in tempi cupi, per molti versi, e mi sembra importante mantenere questa apertura, questa fiducia nel cambiamento buono.

Attualmente è impegnato in un altro progetto?

Sono in ascolto e in attesa che l’idea giusta arrivi.