Una Rotonda da rivedere, e un pubblico giovane da riconquistare, quello che guarda i film con l'avanti veloce, ma senza mai scimmiottare Venezia
Non solo si è chiusa la 76esima edizione di uno dei più longevi festival internazionali di Cinema, ma a Locarno è calato il sipario sulla più lunga epoca del Festival, quella che porta il segno di Marco Solari presidente. Per 23 anni è stato il monarca di una manifestazione che ha voluto fortemente sprovincializzare, e con l’aiuto di ben sette direttori, di cui due donne, è riuscito a fare del Festival di Locarno una piazza internazionale. Ci sarà tempo per ripensare a quanto è successo in questi 23 anni, di sicuro, lì da vedere ci sono la Piazza Grande piena, la sala della retrospettiva colma di giovani, le sale del Fevi e dintorni popolate da un variegato mondo di cinefili, come fosse un campus universitario aperto allegramente a tutte le età.
Questa è l’originalità di Locarno, la vera eredità di Marco Solari, da non disperdere magari sognando di scimmiottare Cannes o, peggio, Venezia. Locarno non è un Festival da tappeti rossi, è il festival di Open Doors, dei cineasti del presente, di una seria Settimana della Critica, di retrospettive che fanno letteratura, di un Concorso che non interessa per i nomi in cartellone, ma per l’idea di cinema che vi nasce. Ecco Locarno è questo, ed è stato il Festival 2023.
È bastato girare per le strade di Locarno per scoprire la gioia di chi viene da tutto il mondo a vivere il Festival, e se un’ombra, una sola c’è stata, è la consapevolezza di un lavoro da fare: la Rotonda pensata come un’appendice festosa del Festival è diventata un’altra cosa; la maggior parte dei frequentatori non frequenta il Festival, non s’interessa al Cinema, è una maggioranza di giovani che, come ben spiegava Ryoo Seung-wan, regista del bel film sudcoreano ‘Smugglers’, "non sanno stare fermi due ore a guardare il film e vorrebbero un telecomando per velocizzare la visione”, un’intera generazione che guarda e discute brevi filmati su YouTube e Tik Tok. Intercettarli e coinvolgerli è il grande lavoro da fare per il Festival, forse si tratta di attuare visioni diverse, meno ingessate. Forse. Se questo è un tema cruciale è perché si tratta del futuro, di cui la nuova presidente del Festival dovrà farsi carico insieme al Direttore artistico, confermato o no che sia Giona A. Nazzaro, che ha mostrato di ben lavorare, quest’anno che è stato in fondo il suo primo vero anno, senza pandemia e altro che avevano segnato i suoi esordi.
Nazzaro ha consegnato agli archivi un Festival che sarà ricordato per la qualità dei film e per la capacità che ha avuto nell’assorbire il peso non prevedibile dello sciopero degli sceneggiatori negli Stati Uniti. Tra i film, vanno segnalati il fulminante esordio di Simone Bozzelli, che con il suo ‘Patagonia’ ha sconvolto i benpensanti e dato uno scrollone a chi, assiso su una poltrona, al cinema stava pascendosi nel tedio; il conturbante ‘Yannick’ del sempre sorprendente Quentin Dupieux, un film sul teatro, la vita, il rapporto tra spettacolo e spettatore, dove lo Yannick del titolo è come tanti della Rotonda che non si divertono più con il trito spettacolo, e vogliono qualcosa per cui valga la pena spendere il proprio tempo, altrimenti meglio una birra, un aperolspritz, un amico o un’amica con cui parlare e ridere magari.
È stato il Festival del solito grande Lav Diaz, il suo ‘Essential Truths of the Lake’ è da rivedere e far rivedere. È stato un Festival che ha segnalato il disagio giovane di vivere e la ricerca di un dove stare, di un senso da dare alla parola casa e all’altra parola che è futuro: pensiamo, in Concorso, a ‘Baan’ di Leonor Teles, a ‘Animal’ di Sofia Exarchou, a ‘El auge del humano 3’ di Eduardo Williams, a ‘Manga D’Terra’ di Basil Da Cunha, a ‘Nuit obscure - Au revoir ici, n’importe où’ di Sylvain George. Una serie di titoli che segnala questa emergenza giovane, che si mischia ai temi del lavoro, della migrazione, di quel quotidiano che pesa. Il Festival sarà ricordato anche come quello di Ken Loach e del suo ‘The Old Oak’, che qui, più che a Cannes, ha ritrovato in una Piazza Grande gremita la dimensione popolare della sua denuncia di un mondo senza fratellanza, e il suo è stato commovente canto.
Nella stessa piazza ci piace ricordare un film che non va dimenticato, ‘La Voie Royale’ di Frédéric Mermoud, un film sulla scuola, sullo studio come realizzazione di sé, un invito a credere nella Cultura per migliorare il mondo in cui viviamo, un film che fa a pugni con la società del divertimento in cui siamo immersi, ricordandoci il detto dantesco: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza”.
Della stessa Piazza vorremmo ricordare un altro importante film di questo Festival, ‘Čuvari formule’ (Guardians of the Formula) di Dragan Bjelogrlić, purtroppo passato in seconda serata, una storia ignorata della Guerra fredda, il destino di un medico che per tener nascosto il fatto non ebbe il Nobel, un gruppo variegato di umili francesi che mostrano una umanità auspicabile, pur coraggiosa, per aiutare l’Altro, il Nemico. Ed è questo film il messaggio più alto di Pace che da Locarno deve spandersi in questo mondo afflitto da guerre e da ingiustificati odi verso migranti e da chi è diverso dall’immagine che vediamo riflessa sul nostro specchio.