Così è motivato il Vision Award ritirato ieri in Piazza: ‘Niente nella musica, nel teatro, nel cinema, nella danza e nella videoarte sarà più lo stesso’
L’allestimento ha poco di sperimentale e un che di mistico: la protagonista al centro, un emiciclo di sedie di fronte, un tavolino nel mezzo e dell’acqua sopra. E un soffitto di affreschi a formare un sandwich di arte visiva. «Oh, sono magnifici…», commenta Laurie Anderson, tra una stretta di mano e limpidi sorrisi. Locarno75 fa da tramite col pubblico del Festival proiettando l’opera multimediale ‘Home of the Brave’ (la multimedialità del 1986, ma chiamarlo ‘concerto’ sarebbe una boutade) e una riflessione sul trapasso intitolata ‘Heart of a Dog’ (2015), che parte dalla morte della cagnolina Lolabelle (musicista come la sua padrona, un delicato suo ritratto apre ‘Crocodile Rock’, libro di Ezio Guaitamacchi che raccoglie bestie e bestiole della storia del rock) per estendersi ad amici e familiari, Lou Reed in testa, compagno di una vita. Una produzione tecnologicamente ‘flamboyant’ la prima, un gesto d’intimità rivelata il secondo.
Compositrice, musicista, artista visiva, regista, performer, in sintesi ‘storyteller’, come ama definirsi (‘narratrice di storie’), Laurie Anderson è a Locarno per ritirare il Vision Award Ticinomoda, per il semplice motivo che (parole del direttore artistico) "niente nella musica, nel teatro, nel cinema, nella danza e nella videoarte sarà lo stesso". Devono averla pensata come Giona A. Nazzaro anche quelli dell’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington Dc, che hanno allestito la più imponente retrospettiva a lei dedicata. «Ma apprezzo la semplicità delle cose, l’apprezzo sempre di più», esordisce Anderson. «Sto lavorando a un’opera e vorrei realizzarla con poco o nulla. Tutto il nostro mondo è così ‘aziendale’, mastodontico». A Locarno si è già guardata intorno, scoprendo che «esistono ancora festival che aprono ai film indipendenti, ed è bellissimo che accada anche qui. Poco fa mi hanno chiesto di avanguardia, d’ispirazione. Ho risposto che quella New York non esiste più, che quella scena artistica non c’è più, che quel cosiddetto ‘nuovo centro culturale’ non è altro che corporate, non è più fatto di artisti ma di aziende. Manca la ‘manifattura’».
‘Quella scena artistica’ è la New York dei primi anni 70, è il violino sperimentale (ma l’aneddotica mette al primo posto i pattini immersi nel ghiaccio, si rimanda alla Rete). ‘Quella scena artistica’ sono le collaborazioni con Philip Glass, Brian Eno, John Cage, l’incontro con Lou Reed, un lungo transito sperimentale arrivato sino al ‘robotico’ singolo ‘O Superman’ (1982, sull’album ‘Big Science’, oggi splendido 40enne), reso immortale da una campagna contro l’Aids.
Il salto dall’avanguardia alla realtà virtuale (Vr), parte di quella retrospettiva, è molto breve. Almeno per lei, 75enne. «La Vr mi piace, ma ha sempre bisogno del corpo, è esperienza che si può provare in modo completo soltanto attraverso di esso. Diverso è il cinema: una proiezione può lasciarci paralizzati per totale empatia». Il futuro? «Sarebbe interessante sapere dove stiamo andando. Non so se la direzione sarà la Vr, con prodotti cinematografici tendenti al ‘gaming’, o un cinema più classico, più mentale. È certo che l’ipnosi in cui siamo tutti calati oggi è spaventosa: camminiamo con un telefono davanti agli occhi, mi ci metto anche io. Cosa ha a che fare un telefono con i film? Cosa ha a che fare con le storie?».
Le storie, appunto. Quali storie racconterà la storyteller del futuro? «Sfortunatamente, molte delle storie di oggi sono il racconto di sprofondi: clima, estinzione, fine del mondo, cose apocalittiche. L’arte riflette tutto questo. È quella che io definisco ‘pornografia apocalittica’. E in questo clima surriscaldato, per me che sono americana è anche peggio. Ci sono così tante armi negli Stati Uniti, e non è una buona cosa». Nonostante questo: «Resto ottimista. Essere ottimista ha senso esattamente come essere pessimista, ma mi devi provare che le cose vadano per il peggio, che la prossima pandemia spazzerà via nove decimi della popolazione mondiale molto facilmente. Scelgo di essere ottimista per una ragione: perché ho una vita più felice. Da ottimista posso agire. Il motivo è solo questo, è questo stupido desiderio di essere felici». Qualcuno le fa notare che tutto questo ottimismo cozza con l’oscurità di molti suoi testi e sonorità: «Evidentemente sono anche io in qualche sezione della pornografia apocalittica (ride, ndr)». E aggiunge: «Sono consapevole del momento che viviamo, ma continuo a raccontare storie, almeno per proporre differenti scenari tra i quali la gente possa scegliere, invece che accettare le decisioni del fato».
Testi e sonorità, la musica di chi "ha saputo conquistare il pubblico con alcuni dei brani meno pop di tutti i tempi" (altre motivazioni per l’Award): «Non credo che la musica abbia la stessa storia da raccontare. È più astratta, lavora a più livelli, va oltre il rapporto con le parole. Puoi leggere le liriche più devastanti e ottenere il suono di una ninna nanna; in un film cupo la musica può produrre in noi connessioni completamente diverse. La bellezza di queste forme d’arte è che non sono mai una cosa unica». Detto con poco avanguardismo: «Vedi una persona e credi che sia un imbecille, e invece è solo un timido. L’arte ha queste complessità, ed è una fortuna».
Laurie Anderson dice di aver letto in ‘Capitalism Realism’ di Mark Fisher il perché «siamo presi da questa techno-frenesia». Alla parte «sfavillante» della tecnologia ha provato a resistere in quanto artista che l’ha utilizzata, ma proprio perché la ama, lotta contro la mentalità da smartphone. «Provo a trovare un altro modo di stare nel mondo, e qui al Festival c’è altra gente che come me s’interroga, facendo film, scrivendone, parlandone, capendo se c’è un’alternativa al ‘gaming’ imperante, chiedendosi se il prossimo film sarà ancora un altro Spiderman o un’altra invasione aliena. E un’altra ancora, ancora e ancora…».