Caterina Mona merita un applauso tutto suo per un film sincero, capace di dire dell’oggi, dei migranti che fatichiamo a vedere, apprezzare, custodire.
Una bella serata in Piazza Grande con un film necessario, lo svizzero ‘Semret’, opera prima della regista Caterina Mona. Vederlo è un tuffo nella bellezza di quel cinema morale e civile che tanto manca nei panorami commerciali cinematografici. Pur affrontando un tema duro e doloroso, la regista riesce a confezionare un film delicato, dolce nel suo malinconico dire del vivere e del provare ad amare comunque. Semret (una bravissima e intensa Lula Mebrahtu), è una madre single eritrea, che era riuscita a lasciare il suo paese dopo essere stata violentata. Lavora all’ospedale di Zurigo e studia per diventare ostetrica, e intanto viene usata per questo lavoro, negli ospedali manca sempre il personale. Vive in una modesta e bella casa e vede crescere la figlia ‘Joe’ (Hermela Tekleab); di notte la raggiunge nel suo letto per proteggersi da incubi che sono ricordi. La figlia insiste con lei per sapere il nome del padre non si accontenta di sapere che è annegato nel Mediterraneo, come tante donne raccontano ai loro figli.
La donna vive appartata, ma proprio la figlia la porta a una festa eritrea dove conosce un uomo gentile, un immigrato senza documenti che lavora con una cooperativa che svolge lavori anche all’interno dell’ospedale. I due cominciano a parlarsi, mentre la figlia di lei intreccia una storia d’amore con il nipote di lui. Lei a un certo punto si trova in grossi problemi, è accusata di aver fatto andar male un parto e il nascituro è ora grave in reparto di crisi; lui cerca di consolarla, ma lei non vuole aiuto; da sola, studia i suoi libri e scopre che il nascituro ha un problema ben diverso, che dipende dal suo organismo. Viene reintegrata, e nel frattempo invita lui a una cena da lei; mangiano, ascoltano della musica, ‘Tu vuo’ fa l’americano’ di Renato Carosone e ‘A chi’ di Fausto Leali (la regista confessa di averla scelta perché l’aveva sentita in Eritrea proprio in un caffè); proprio mentre ballano sulla musica di Leali cercano di baciarsi, ma lei si ritrae violentemente e lo caccia di casa; di più, proibisce alla figlia di vedere il nipote di lui. La ragazza non ci sta è l’accusa di mentire sul padre; lei come un fiume in piena le dice di come era stata stuprata, di non conoscere il nome di chi l’ha inseminata, le dice che si era battuta la pancia per non averla, le dice che ora è la cosa più importante che ha. La ragazza se ne va, le due s’incontreranno dopo, pacificate. Intanto Semret è andata in cerca di lui trovandolo nella stanza comune in cui viveva, pronto a scappare insieme ai suoi compagni di sventura per non essere preso dalla polizia, e rimandato in Eritrea. Lei lo guarda partire, lui alza la mano per salutarla, forse era un arrivederci.
Caterina Mona merita un applauso tutto suo per un film sincero, capace di dire dell’oggi, di quei migranti che fatichiamo a vedere, ad apprezzare, a custodire come bene e non come peso. Un film che dice di una figlia non voluta ma amata ancor di più per la solitudine in cui è stata concepita, e dice di adolescenti che sono una seconda generazione o talvolta una terza, che parlano la nostra lingua, ascoltano la nostra musica, leggono la nostra storia, camminano sulla strada che abbiamo in comune. E non è giusto che questo non basti a sentirli nella nostra Heimat, anche se è piena di porte chiuse. Grande Cinema in Piazza Grande