Il film di Stefan Jäger in Piazza Grande, un’occasione persa per rompere la bolla oleografica sulla ambigua esperienza del Monte Verità
Non ho mai capito bene perché in Ticino non si possa parlare di Monte Verità con uno sguardo aperto sulla realtà tutta intera. Lo si facesse, si scorgerebbe per lo meno quello che appare a prima vista come un immenso calderone di esperienze disparate, dall’arte alla psicoterapia, dalla magia sessuale alla politica, dal naturismo al veganismo e (persino) agli incunaboli dell’ecologia e del gender. Facendo poi lo sforzo di mettere a fuoco personaggi e teorie vi si potrebbe scoprire – sempre che si tolgano dagli occhi le fette di salame del pregiudizio e dei clichés di comodo – un vero piccolo laboratorio delle ideologie che hanno caratterizzato uno dei secoli più drammatici della storia, il XX, dallo slancio delle sue magnifiche utopie fino al disastro che, per eterogenesi dei fini, ha purtroppo contraddistinto i suoi frutti.
Se poi non ci si lasciasse distrarre dalle comprensibili simpatie per questa o quella corrente del grande magma che ribollì per un ventennio sul piccolo colle asconese e rifluì poi in tanti rivoli verso il vasto mondo (occidentale), si sentirebbe vibrare il basso continuo che sottostà, udibilissimo, a tutta la musica dodecafonica di Monte Verità: la magia, con le sue varianti esoteriche, gnostiche, occultistiche.
Per questo sono piuttosto in sintonia con la delusione manifestata da Ivo Silvestro su laRegione di fronte al film proiettato sabato sera in Piazza Grande, dal titolo appunto di ‘Monte Verità’ (una coproduzione svizzero-austriaca, in realtà abbondantemente finanziata da istituzioni nostrane, come Rsi e Cantone: inevitabile dunque la “prima mondiale” al Festival di Locarno). Modestamente, non sarei severo come Silvestro sul valore artistico del film diretto dal regista zurighese Stefan Jäger (“un film insipido”, uno “spot promozionale del territorio”). Ma convengo che a salvarlo sia soprattutto la bravura degli attori, specie della protagonista Maresi Riegner nel ruolo di Hanna Leitner.
Quello di Hanna è l’unico personaggio di finzione, tra le varie figure storiche messe in scena dal regista e dalla sceneggiatrice Kornelija Naraks. È pur vero che gli autori hanno prodotto un certo sforzo per non edulcorare eccessivamente i personaggi storici, com’è d’uopo invece nella vulgata su Monte Verità (il risultato risente comunque, come dirò, della solita pudica censura degli aspetti più crudi della realtà, storicamente accertata). Ma sono anch’io del parere che il film, prima fiction dopo tanta documentaristica (nella quale peraltro si è cimentato anche chi scrive), ha perso l’occasione per togliere la narrazione corrente su Monte Verità dalla bolla oleografica in cui l’intellettuale collettivo ticinese l’ha di norma rinchiuso.
Per esempio: Otto Gross è un personaggio chiave nella storia di Hanna, al centro del film. La donna, madre di due figlie, anche grazie alle “cure” di questo psicanalista sui generis che teorizza il ritorno al “matriarcato originario” ma anche il rapporto sessuale medico-paziente, uscirà dal soggiorno di Ascona liberata dai legami di una famiglia trucemente patriarcale (al limite della caricatura) e potrà dedicarsi interamente alla sua passione per la fotografia. La sceneggiatura non può nascondere alcuni lati oscuri del dottor Gross. Ma chi era realmente questo singolare terapeuta? Lo descrive ad esempio Didier Péron in un dossier storico accurato dedicato qualche anno fa da ‘Libération’ alla Montagna magica:
Otto Gross passa da un'amante all'altra, facendo loro figli di cui rifiuta (per principio) di prendersi cura. Soggiorna frequentemente in ospedali psichiatrici a causa della sua tossicodipendenza [da eroina e cocaina, ndr] ma anche per ordine di suo padre, un criminologo ultraconservatore. Emulo di Freud, che l’ha ripudiato dopo averlo giudicato pericoloso, Gross è sospettato di aver aiutato due donne a morire fornendo a una del veleno e all’altra della droga. Dapprima Lotte Hattener, pioniera di Monte Verità, che si suicida nel 1906, poi, nel 1911, Sophie Benz, pittrice e anarchica, trovata morta per overdose di cocaina.
Nel nostro film Lotte spira quasi beata e sorridente tra le braccia dell’amata Hanna. Dal processo che seguì a carico del dottor Gross si seppe che la donna morì dopo un’intera giornata di dolori atroci.
Dettagli. Ma forse, per fare un altro passo verso il nodo della faccenda, più dei ritocchi al dato storico, che la fiction può legittimare, è significativa la selezione dei personaggi storici inseriti nel copione. E ciò vale per il film di Jäger come per il film che solitamente ci proietta l’intellettuale collettivo ticinese. In un caso come nell’altro si esibiscono figure prestigiose che godono di ampio riconoscimento e si lasciano riposare nell’ombra figure considerate impresentabili, anche se in realtà importanti, rappresentative della realtà storica di Monte Verità. Ma tra tutte corre, sempre, il filo rosso della magia.
Prendiamo due “dimenticati” (dalla suddetta vulgata, non certo da ricercatori valorosi come Harald Szeemann o Andreas Schwab, e prima ancora Walter Schönenberger): Rudolf Laban e Fidus (Hugo Hoppener). Laban, geniale coreografo, organizzò nell’estate del 1917 un grandioso spettacolo a Monte Verità, un moderno saturnale durato un’intera notte, a conclusione di un congresso dell’O.T.O (Ordo Templi Orientis), con gran numero di danzatori (avete indovinato: sono i celeberrimi balabiott), torce e gong. A partire da questo rinato spettacolo pagano di massa, nota Schönenberger, Laban propose in seguito un canovaccio per l’inaugurazione dei Giochi Olimpici di Berlino nel 1936. Goebbels, il capo della propaganda nazista, lo licenziò in malo modo. Quando si elencano le figure di spicco transitate da Monte Verità, per l’arte coreografica si suole citare la più spendibile Isadora Duncan, precorritrice della danza moderna ma che in realtà lassù fece solo alcune visite. Scritturata, naturalmente, anche da Jäger-Naraks per il nostro film.
Eppure le tracce che conducono verso il nazismo non sono rare sulla collina asconese, e non c’è affatto da scandalizzarsene. Le personalità legate alla teosofia ariana, gli ariosofi, precorritori delle teorie razziali naziste, non mancarono a Monte Verità. Di esse fece parte il pittore Fidus che, per farla breve, divenne negli anni 30 uno dei ritrattisti di Adolf Hitler. Il Führer (che peraltro non si ritrovava in quei dipinti), non disdegnò inizialmente l’arte dei cantori della purezza della stirpe germanica maturata nelle file dei teosofi, che però squalificò infine come una delle tante degenerazione borghesi.
È indubbio che se ci fu un denominatore comune politico tendenziale tra i pensatori e gli artisti di Monte Verità esso fu, in senso lato, “progressista” e anticapitalista, senza negare gli esiti appena ricordati. È forse questo clima dominante che attirò sulla collina, tra tanti altri rivoluzionari, anche Lenin e Trotskij? La domanda resta a mio parere aperta, anche perché non mi pare sia stata sufficientemente indagata la (presunta) presenza nella “Casa dei Russi” dei due corifei del comunismo. Cosa poté averli attratti lassù? Una possibile lettura la diede in un’intervista del 2014 lo studioso di nuove religioni e correnti magiche Massino Introvigne:
Io credo che avessero questa idea: una certa cultura alternativa, che in cuor loro disprezzavano parlando di “utili idioti”, proprio in quanto vecchia talpa (di cui parlava Marx) scavava, sotto il vecchio ordine europeo, delle gallerie che alla fine avrebbero fatto saltare tutto. Questi intellettuali del Monte Verità potevano essere dei compagni di strada... da liquidare dopo, ma che per un po’ avrebbero potuto essere utili in quanto distruggevano un vecchio ordine europeo. Curiosamente Hitler aveva le stesse idee, cioè considerava questi intellettuali esoterici stile Monte Verità - come scrisse - dei poltroni, ma dei poltroni che potevano essere utili nella fase di distruzione del vecchio ordine e della presa del potere. Poi, una volta afferrato il comando, molti di costoro finirono in prigione perché... non servivano più. Esattamente lo stesso fece Lenin.
Verosimile. Ma forse occorrerebbe andare più a fondo e cercare di comprendere le ragioni del pullulare in epoca moderna, specie dalla seconda parte dell’800 in poi, di forme di religiosità gnostica (assai vive del resto ancora oggi), a partire dalla teosofia, alla quale aderì entusiasta l’ideatore del progetto di “monastero laico” a Monte Verità: Alfredo Pioda, politico ticinese di alto profilo nel quale un rigoroso e militante laicismo si coniugava appunto con forti credenze di tipo spiritistico. Qualcuno ha parlato di “altra faccia della modernità”. La riduzione razionalistica della ragione, che ne espunge come segno di debolezza le domande esistenziali e religiose che della ragione sono in realtà l’espressione suprema, ha generato e genera, spesso sottobanco, forme compensatorie di magia, ovvero di possesso gnostico e vitalistico del sacro.
Si ignora quasi universalmente, ed è significativo, che il fondatore del positivismo e dello scientismo (non della scienza!), Auguste Comte, sentì il bisogno di crearsi una sua chiesa, surrogato della cristiana con tanto di riti, celebrazioni e gerarchie, di cui si auto proclamò papa infallibile. E non scherzava.