Il difficile ‘La petite Solange’ della pur brava Axelle Ropert e il delirante ‘Soul of a Beast’, opera seconda dello svizzero Lorenz Merz.
Altri due film in Concorso, in cerca di un qualche Pardo, capace di segnarne il destino. ‘La petite Solange’ della brava Axelle Ropert, di cui con piacere ricordiamo il delicato ‘La Prunelle de mes yeux’ ma soprattutto il bel ‘La Famille Wolberg’, e ‘Soul of a Beast’ opera seconda di Lorenz Merz.
Entrambi i film, con stile e approcci diversi si inoltrano nelle difficoltà civili e affettuose di un mondo scandalosamente dedicato alla solitudine. Axelle Ropert spiega così il suo film: “Una giovane ragazza osserva mentre il suo mondo svanisce lentamente. Il cinema forse è stato fin dall'inizio questo: raccontare la nascita di una ragazzina sullo schermo, la fine dell'amore e l'alba di un nuovo mondo”. La protagonista di ‘La petite Solange’ è una bambina di tredici anni (l’intensa e commossa Jade Springer), la sua vita normale viene segnata dalle liti e dai tradimenti dei genitori, le sue reazioni anche violente – risponde ai professori, ruba nei magazzini – non vengono captate da adulti attenti solo a loro stessi e ai loro interessi privati, che non sono in grado di tenere unita la famiglia o di non vendere la casa comune. Finisce che Solange tenta il suicidio, ma a parte un periodo in casa di cura, non ottiene altro che diventare testimone del fallimento della sua famiglia. Quello che manca al film è un interesse vero, un approfondimento verso personaggi che sembrano cartoline di un gioco già visto. Certo il tema era difficile, una bambina che si suicida per la fine dell’amore dei suoi genitori, ma questa difficoltà doveva servire a colorare diversamente il film e non accontentandosi di colori ineluttabilmente autunnali e di una narrazione da libro Cuore.
Su terreni linguistici diversi si esprime lo zurighese Lorenz Merz nel suo delirante ‘Soul of a Beast’ di cui egli dice: “Quando ho assistito alla nascita di mio figlio e alla morte dei miei amici, una sensazione identica ha attraversato il mio corpo, come se intravedessi uno squarcio improvviso nel cielo vuoto”. Bene uno squarcio l’abbiamo visto anche noi, non in cielo ma sullo schermo dove un giovane uomo, di fronte al suo bambino, decapita una giraffa, mentre nei suoi ricordi vede quel suo stesso figlio mettere fuori la testa dall’utero di una madre che il padre ora disprezza. Giusta conclusione di un film che inizia mostrando questo solitario e giovane padre lasciare il figlio solo a casa, raccomandando al gatto di non svegliarlo, per tirare una bella dose di mescalina e andare insieme al suo migliore amico e alla sua ragazza a vagare per le strade di Zurigo, fino a arrivare allo zoo e qui liberare degli animali tra cui la giraffa che farà una brutta fine prima che si chiuda lo schermo. Inutile dire che tra gli effetti collaterali della droga c’è anche il furioso innamoramento tra il protagonista e la ragazza dell’amico. Per non far mancare niente alla vicenda il bambino infila uno spiedino di frutta nell’occhio della nonna che è anche una quotata presentatrice televisiva. Certo non manca la violenza, sempre gratuita ma lontana dallo stile di Tarantino; i personaggi sono caratterizzati con la finezza di una sega elettrica. Per il resto non c'è che noia e vuoto, niente di interessante neppure la musica, il problema poi è che il regista si prende sul serio e non riesce a giocare con la follia del suo raccontare rendendo acido lo spettacolo allo spettatore.