AC/DC, 'Power Up' - ★★★★✩ - Non è molto diverso dagli altri. Non chiedevamo di meglio.
Forse l’abbiamo già scritto, ma è sempre un aneddoto divertente da raccontare. Un giornalista, in un giorno imprecisato di fine anni Ottanta, fece questa domanda ad Angus Young, solista oggi ancor più leader della rock band australiana AC/DC dopo la scomparsa del ritmico fratello Malcolm: “Ma vi rendete conto che avete fatto undici album tutti uguali?”. Angus lo scolaretto, con imprevedibile autoironia e in nome di una compostezza quasi mai britannica, gli rispose: “Ti sbagli. Sono dodici”.
Quando il lampo ha cominciato a lampeggiare – l’accativante teaser che ai primi di ottobre annunciava sui social l’imminente singolo ‘Shot in the dark’ – non è parso vero a metallari, rockettari e insospettabili melodici (il loro pubblico è clamorosamente trasversale) di ritrovare gli AC/DC quasi al completo, in quello che è ufficialmente, dallo scorso venerdì, il primo disco (il diciassettesimo) senza Malcolm Young, motore forse imprescindibile del groove degli australiani, spentosi giusto tre anni fa, il 18 novembre, sostituito dal vivo e ora anche su disco dal nipote Stevie.
‘Power Up’, ma anche ‘PWR/UP’ (o con la scossa al posto dello slash) è il nuovo album di quella macchina da guerra del rock nata nel dicembre del 1973 tra la Scozia e l’Australia, dal genio e dalle maniere sbrigative tipicamente di Glasgow dei fratelli Young, nello specifico i fratellini Angus e Malcolm e non di meno il fratellone George, finito all’inferno solo un mese prima del secondo.
La storia dice che ci fu George dietro l’esplosione del fenomeno AC/DC, lui già con un passato di musicista, alla consolle (e molto altro) dall’esordio di ‘High Voltage’ (1975) fino allo splendido ‘Powerage’ (1978), prima di lasciare il posto a John ‘Mutt’ Lange per ‘Highway To Hell’ (1979), album della svolta, e ‘Back In Black’ (1980), album del ricordo di Bon Scott, primo frontman finito all’inferno anch’egli per qualche eccesso di troppo (Precisazione: l’inferno, tematica che ritorna costantemente nei testi della band almeno quanto il sesso, è il paradiso per gli AC/DC, che nel 1977 sull’album ‘Let there be rock’ cantavano ‘Hell Ain’t a Bad Place to Be’, l’inferno non è poi un brutto posto. Perché a noi viene più facile immaginarci gli ex componenti nelle profondità degli inferi a rosolarsi al sacro fuoco del peccato che non nell’alto dei cieli coi cherubini ai cori e San Pietro all’organo Hammond).
“Sono fortunato”, dice Angus Young con tre o quattro Marshall alle spalle durante un’intervista di lancio di ‘Power Up’, rispondendo a chi gli chiede com’è essere gli AC/DC ai tempi della pandemia, loro che nei carnai di arene e stadi sono sempre stati la negazione del distanziamento sociale. E la copertina, in un certo senso, e anche il video – band e attrezzature in uno studio vuoto – sottolineano il momento, con il neon del logo (autorizzato per il solo ‘High Voltage’, ma gli Young tornarono a usarlo senza permesso due anni più tardi, e per sempre) a riempire gli spazi vuoti. “Faccio esercizi, provo qualcosa di nuovo, sperimento. Cerco qualcosa che sia AC/DC, ma che ancora non è uscito da noi”. E quando quel qualcosa “diventa AC/DC, mi fermo e passo al resto”. Parlando di ‘Power Up’, il redivivo Brian Johnson dice che a ogni disco degli AC/DC per lui è come essere “l’astronauta sul primo razzo per la luna”. Perché, come i traduttori coi libri, ascolta i pezzi prima di tutti. “E se i pezzi non fossero fantastici, sarebbe una disgrazia cantarli”.
Il ritorno di Brian Johnson, che in ‘Demon fire’ sfoggia anche il registro grave, diversamente demoniaco, ci dà il là per la miglior definizione di ‘Power Up’, che vorremmo tanto avere scritto noi ma, siamo onesti, viene dalla stampa inglese: “Un miracolo della medicina”. A cantare, come detto, è Johnson, degno erede di Bon Scott, che nel 2016 diede l’addio alla band per gravi problemi all’udito, sostituito da Axl Rose dei Guns N’ Roses (“Non abbiamo mai nemmeno pensato di registrare con lui”, avrebbe detto l’ultimo degli Young, ed è un bene, perché Axl Rose con gli AC/DC c’entra come Tony Hadley coi Rolling Stones).
Tra i miracolati c’è anche il batterista Phil Rudd che, guai giudiziari a parte, è sopravvissuto a un infarto che nel 2014, anno dell’album solista ‘Head Job’, ci privò di una sua intervista svizzera (e ancora ci percuotiamo il bassoventre come Tafazzi dell’hard rock). Ora il battito è regolare quanto i colpi sui timpani di ‘Code Red’, il lento picchiare che s’insegna nelle scuole di musica. Che sembra facile, ma facile non è.
È tutto. Cosa ne pensiamo dell’album? Che è uguale a tutti gli altri. Non chiedevamo niente di meglio.