Pochi cambi di ritmo, nessun colpo a effetto, un lavoro sottotraccia. Bastano e avanzano i racconti dei migranti nel libro di Piergiorgio Paterlini
B.S. non ha molti amici, ma gioca a calcio con i ragazzini della sua età. In Mali, quando c’è la luna piena, si può giocare a calcio fino alle dieci di sera. Nel villaggio di B.S. ci sono solo la scuola primaria e la secondaria; se si vuole continuare a studiare, bisogna andare in un’altra città. B.S. ha undici anni e molta voglia di imparare. Sua madre non conosce nessuno fuori dal villaggio e vuole che resti a casa, ma lui insiste. Finché lei, non si sa di preciso come, trova una persona che accompagni il figlio a prendere un autobus (cinque ore a piedi) che gli permetterà di raggiungere “una grande città” (un’altra mezza giornata di viaggio), dove ci sarà qualcuno ad aspettarlo e a ospitarlo. Non c’è nessuno. L’autista dell’autobus si rifiuta di riportarlo a casa, pretende soldi che B.S. non ha. Il ragazzino si incammina da solo lungo una strada trafficata. Un motociclista si ferma, lo porta a casa sua, ne ascolta la storia. Gli propone di mandarlo da sua madre, in “un’altra città”, dove potrà studiare. B.S. accetta. Per quattro anni, si alzerà all’alba, lavorerà nei campi, andrà a scuola, tornerà nei campi. B.S. non molla, vuole andare anche al liceo. Ma per accedervi serve il certificato di nascita, e quella che ha sempre considerato sua madre deve confessargli di non essere la sua vera madre. B.S. ora vuole solo una cosa, lasciare il paese. Va in Libia, due mesi durissimi. Poi la solita trafila: “Sono sbarcato a Lampedusa. Tredici giorni, poi mi hanno trasferito ad Agrigento, sei mesi, da Agrigento a Bologna, una settimana se ricordo bene, poi qui, a Reggio Emilia”. B.S. fa un corso di formazione e la scuola media, contemporaneamente. Diventa esperto di macchine utensili, nel settore metalmeccanico. Ora ha vent’anni e poche pretese, il desiderio di “fare una vita semplice”.
C’era solo un modo per fissare per sempre la storia di B.S. e quelle di tanti altri migranti (parentesi: tanti davvero, sempre di più. Nel 2023 in Italia ci sono stati oltre 150mila sbarchi, il cinquanta per cento in più rispetto al 2022, oltre il doppio rispetto al 2021. Più di 17mila i minori non accompagnati. Non è retorica, sono le cifre fornite dal Viminale). Prima di tutto bisognava farne un libro, un oggetto capace di resistere ai tempi stretti del giornalismo e di sottrarsi al processo di de-gerarchizzazione della rete, che tutto appiattisce nella sua sterminata e anonima orizzontalità. E questa materia incandescente bisognava metterla nelle mani di uno scrittore capace di farne letteratura, cioè di trasformare le storie vere in storie Vere. Meglio ancora è stato affidarla a Piergiorgio Paterlini - da sempre sensibile alle vicende degli ultimi - che ha dato forma a un progetto Siproimi promosso dalla cooperativa Dimora d’Abramo di Reggio Emilia (presso la cui segreteria si può ordinare gratuitamente il libro, fuori commercio).
Si diceva di manipolazioni letterarie. Quelle operate da Paterlini – che ha reso in altrettanti brevi racconti i colloqui avuti tra l’ottobre e il dicembre del 2019 con dieci migranti – sono essenzialmente due: lasciare tutta la scena ai personaggi (non più persone: personaggi) e fare in modo che fossero loro stessi a raccontarsi. Il libro è riuscito proprio in virtù di questo intervento artistico, e non certo perché la letteratura debba investirsi di qualche missione edificante (per carità!) o perché parla di “storie vere” (di cui oggi sembra esserci in Italia una gran voglia presso gli scrittori e presso i lettori: le cinquine dell’ultimo Campiello e dell’ultimo Strega sono lì a dimostrarlo).
Le storie di questi dieci giovani uomini (non c’è nemmeno una donna) presentano una significativa serie di tratti comuni. Le ragioni della partenza sono sempre riconducibili alla povertà o alle persecuzioni. Shakawat viene dal Bangladesh: “Sono scappato dalla fame. Abitavo in campagna. In un piccolo villaggio. In campagna vivono moltissime persone perché le città sono ancora più povere. Piante di frutta. Riso. Questo c’è, e poco altro”. Chico è fuggito dal Congo: “Quando ti arrestano ti mandano in un carcere molto lontano, anche settecento chilometri, in modo che tu non possa avere la famiglia vicino. E in Congo se non hai la famiglia che ti aiuta, che ti porta da mangiare, non mangi, in galera. In galera soffri e muori, e basta”. Poi ci sono la lunghezza del viaggio (Zeeshan parte dal Pakistan e arriva in Italia dopo essere passato da Iran, Turchia, Grecia, Macedonia e Austria) e l’imbuto della Libia con le sue violenze, che è un po’ per tutti il posto da cui salpare verso l’Europa. Anche per Aliou: “Ho visto tante cose in Libia in quei terribili quattro anni. Vita pericolosissima. Ladri che entrano in casa, ti portano via tutto, portano via anche te. O arriva qualcuno che ti chiede soldi. Lavorare gratis come schiavi, quando va bene. Ma anche ucciderti senza pensarci due volte”. E mentre nel Nord del mondo si fa un gran parlare di “Grandi dimissioni” e di “quiet quitting”, per questi dieci nuovi cittadini reggiani imparare una professione significa (ri)costruire la propria identità, anche a costo di grandi sacrifici. Jeyobabi ora fa il programmatore, ma non ha dimenticato le prime fatiche: “Mi alzavo alle tre del mattino e andavo in bicicletta da Reggio a Canali per lavorare in una stalla. Finivo tra le 7 e le 8, poi andavo in un’altra azienda che faceva catering in tutta Italia, scaricare e caricare la merce. Poi nei ristoranti. Facevo il lavapiatti. Più di due anni, questo”. Sono storie di successo, certo, ma anche per chi ce l’ha fatta rimane, immedicabile, la ferita della distanza dalla famiglia: Chico ha lasciato in Congo un figlio di sette anni, che ora ne ha tredici; Aliou non ha mai più visto i suoi fratelli e le sue sorelle, da otto anni li sente solo per telefono.
Alla fine si ha l’impressione di racconti molto simili, difficilmente distinguibili gli uni dagli altri. Pochi i cambiamenti di ritmo significativi; pochi i dettagli capaci di incidere la pagina e la memoria, e riassorbiti nell’omogeneità del tessuto complessivo. Paterlini non ha cercato il colpo ad effetto, ma ha lavorato sottotraccia, sugli spazi bianchi: quelli che separano un punto fermo dal periodo successivo e, soprattutto, quelli che scandiscono i vari blocchi di testo. Vuoti che contengono l’indicibile e che rivelano più di tante parole.