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Breve storia di un ‘Delitto impunito’

Pubblicato da Adelphi, nella traduzione di Simona Mambrini, fu scritto da Georges Simenon negli Stati Uniti esattamente settant'anni fa

Il papà di Maigret nel 1969
(Keystone)
20 luglio 2023
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Un valore decisamente raro, tipico dell’opera narrativa di Georges Simenon, è nella sua capacità di attrarre immediatamente il lettore, nelle sue narrazioni, grazie a una ricchezza di dettagli e concrete situazioni in cui fin dalle prime pagine colloca vicende e personaggi. E non parlo tanto dei suoi libri di genere, dell’invenzione della formidabile figura di Maigret, ma della numerosa serie di altri romanzi, non “gialli”, che era riuscito a darci, come un vero grande classico, e dunque sempre attuale, sempre capace di suscitare ammirazione e interesse. È sicuramente il caso di ‘Delitto impunito’, pubblicato ora da Adelphi (p.184) nella traduzione di Simona Mambrini, e scritto da Simenon negli Stati Uniti nel 1953, dunque esattamente settant’anni fa: ma la cui speciale freschezza risulta decisamente intatta.

Il romanzo è diviso in due parti e si svolge, inizialmente, a Liegi, negli anni Venti del secolo scorso. L’ambiente è quello della casa della signora Lange (madre di Louise), che tiene a pensione pochi giovani studenti per riuscire a mantenersi. Tra questi c’è Élie, che viene da Vilnius, a quel tempo territorio polacco, per compiere i suoi studi in matematica. Si tratta di un ragazzo di modesta famiglia, molto ombroso e ben poco socievole, che però trova un’accoglienza sinceramente gentile, premurosa e quasi affettuosa. Arriva poi anche Michel (Mikhail nella sua lingua) che è il suo esatto contrario. Appartiene a una famiglia rumena molto agiata, è brillante, e ama muoversi nella città con disinvoltura. Il contrasto tra Élie e Michel è del tutto sotterraneo, nel senso che il rumeno vorrebbe, senza ottenerla, l’amicizia del polacco, che gli fa anche da interprete non conoscendo lui il francese. A un certo punto, il nuovo arrivato riesce anche a stabilire un rapporto intimo con la ragazza Louise. Élie davvero non gradisce, li spia e la sua muta avversione per Michel diviene pressoché ossessiva. Vede che l’altro ragazzo si sente vispo, normalmente inserito e felice, e trova che la propria esistenza, così diversa e opaca, sia come “una specie di aberrazione”. Non riesce neppure minimamente a razionalizzare le sue sensazioni, e a un certo punto è preso da un’ossessione che si esprime nella sua mente con un semplice pensiero orribile: “Lo ucciderò”, comincia infatti a dirsi, fino a quando non medita il modo per concretizzare questo assurdo e orribile progetto. E alla fine della prima parte del romanzo compie il gesto decisivo, in conseguenza del quale fuggirà da Liegi, abbandonerà gli studi e inizierà altrove una nuova vita.

Ritroviamo infatti Élie ventisei anni dopo, negli Stati Uniti, e per l’esattezza in Arizona, dove lavora alla reception di un albergo. È ingrassato e ha perso molti capelli, si è anche sposato, e considera quella sistemazione ormai definitiva. Sennonché, a un certo punto, riappare Michel, che dunque non era morto, ma aveva comunque subito sul suo corpo gli esiti non lievi del gesto compiuto dall’allora quasi coetaneo, ed è ormai un facoltoso affarista. Qui, naturalmente, il romanzo continua sulle ansie del protagonista, attirando il lettore nel gioco di seguirne i piccolissimi movimenti e pensieri, oltre a quelli, naturalmente, ben più segreti e misteriosi del suo rivale, che mai si era del resto posto come tale. Fino alla conclusione, che ovviamente non riveliamo ai nostri lettori.

Simenon, dunque, inscena magistralmente lo sviluppo drammatico di un contrasto tra un soggetto e il suo contrario, tra due realtà umane e psicologiche molto diverse che creano situazioni che arrivano alla lucida follia e all’assurdo, come purtroppo può avvenire in certe umane relazioni, dove l’evidenza di opposti modi d’essere e opposte sorti può talvolta generare esiti quasi surreali. E riesce a farlo con la normalità della sua descrizione, della sua scrittura, dei suoi ritmi narrativi, fino a tenere avvinto il lettore, rendendolo curioso di conoscere la soluzione, l’epilogo della vicenda, come si trattasse di un “giallo”, pur non essendo tale la natura del racconto.


Per Adelphi